Quando si mette insieme il Teatro Romano di Fiesole, Neri Marcorè e le parole di Faber, il risultato non può che soddisfare la voglia di refrigerio di una calda serata di inizio luglio. Refrigerio del corpo e della mente, in un’estate accalorata anche dal clima del dibattito pubblico. La voce di Marcorè non si aggiunge a nessuno dei cori che si alternano in televisione e su internet, piuttosto li sorvola, capace, come le canzoni di De André, di regalarci una prospettiva nuova sul mondo. Che non è poi cambiato molto da cinquant’anni a questa parte. E allora le parole del cantautore genovese arrivano limpide alle nostre orecchie e i riferimenti si accendono istantanei nella mente. Gli oppressi, la critica, l’amore. Il timbro caldo dell’artista marchigiano, che non rinuncia alla chitarra, è affiancato dallo GnuQuartet (Francesca Rapetti al flauto, Roberto Izzo al violino, Raffaele Rebaudengo alla viola e Stefano Cabrera al violoncello) e dall’Orchestra Sinfonica ARTeM, eccellenza strumentale dell’Accademia Reatina diretta da Carlo Moreno Volpini. Sul palco anche Flavia Barbacetto e Angelica Dettori alle voci, le percussioni di Simone Talone e la chitarra di Domenico Mariorenzi. Un ensemble inedito che non può limitarsi ad accompagnare, ma è protagonista alla pari, grazie agli straordinari arrangiamenti di Stefano Cabrera.
Il titolo della serata cita uno dei versi più famosi de Il pescatore, ma descrive anche una peculiarità artistica dell’autore: De André cantava disegnandosi sul volto come una specie di sorriso, un solco come lo definisce lui, che è terreno, grezzo, schietto. Non è un sorriso di gioia, né di circostanza, è l’ironia bruta della critica sociale. È la smorfia affaticata di una giornata di lavoro, la distensione nervosa di un torto ignorato, la felicità del debole che ha la sua rivincita sul forte, ma non ne va fiero, quasi se ne vergogna. Ogni brano una storia, dal fiume Sand Creek alla più aspra Sardegna, passando per la Napoli di Don Raffaè e per la Bologna del 2 agosto 1980, evocata in Se ti tagliassero a pezzetti. E non può certo mancare il dialetto genovese di Mègu megùn. Senza vezzi di saccente esegesi, soltanto con poche asciutte parole di intermezzo tra un brano e l’altro, il pubblico è guidato in un viaggio non retorico, non banale. Un viaggio che tocca i versi celebri di Andrea e quelli meno noti di Le acciughe fanno il pallone, la malinconia di Giugno ’73 e la franchezza de Il testamento di Tito. Un viaggio per riscoprire De Andrè e ricordare Bubola, per apprezzare la musica del cantautorato italiano, a volte relegata a un piano inferiore rispetto ai testi. Per tirare un sospiro di sollievo, pensando che per nostra fortuna c’è ancora chi fa spettacolo come Neri Marcorè, con la semplicità dei concetti e la grandezza delle convinzioni, con la raffinata umiltà di voltarsi verso l’orchestra quando si stacca la bocca dal microfono. Come Anime salve.
Per info: www.estatefiesolana.it