Castigat ridendo mores.
Nella cavea del Teatro greco di Siracusa risuonano gli ammonimenti dei Cavalieri di Aristofane ai demagoghi, che hanno fatto vincere all’autore il primo premio alle Lenee del 424 a.C.
Il binocolo della storia puntato sulla democrazia ateniese porta alla ribalta personaggi che dall’antichità si proiettano oltre il tempo, rendendo riconoscibili gli imbonitori contemporanei che truffano il popolo di diritti e aspettative.
Intorno agli spettacoli che l’Inda propone a Siracusa si sviluppa un’attività culturale di riflessione poetica sulla condizione umana e sulla gestione del potere, attualizzata con l’utilizzo di linguaggi espressivi contemporanei propri di registi che caratterizzano la scena teatrale con lo stigma di una forte personalità. L’intento ambizioso è infatti quello di ridefinire i paradigmi della rappresentazione lanciando uno sguardo contemporaneo sul mito e sul classico che generi un cantiere di linguaggi e forme espressive dove talenti italiani e internazionali possano apportare linfa vivificante alla drammaturgia classica. E, in specie, alla commedia che agisce in un territorio reso più difficoltoso dalla perdita, nei secoli, dei codici identificativi, ma che maggiormente si presta a rivelare il volto ridicolo e becero del potere.
Affronta questa sfida Giampiero Solari, perspicace promotore di nuovi codici di comicità, portando in scena, con qualche contaminazione derivante dall’esperienza televisiva scevra di retorica, il primo esempio di teatro politico, in cui il potere alletta il popolo con la demagogia, che Aristofane dovette interpretare personalmente non trovando attori disposti a tale parodia.
Gretti, avari, grotteschi, vanitosi erano i potenti duemila e cinquecento anni fa, circondati da una corte di opportunisti e adulatori che puntavano ad arricchirsi imbonendo il popolo. Tutto cambia affinché nulla cambi, la natura umana cinicamente volgare, pervasa dai populismi, soggiace alla becera demagogia puntellata dall’ignorante vanità.
L’Atene di ieri è la capitale nostrana dove si invoca l’onestà, si lanciano slogan, si esibiscono immagini propagandistiche stampate sulle magliette e la potenza economica fa tacere i tribunali snodando il fil rouge di una lucida follia.
Nella riscrittura del testo tradotto da Olimpia Imperio, tra citazioni di Amleto e Napoleone, Demo e Paflagone e il Salsicciaio testimoniano l’universale circolarità dell’ingordigia in un atemporale percorso narrativo di umane bassezze sulle quali scendono le ombre della sera, adesso come allora, tra le gradinate di pietra antica del teatro siracusano.
“La metafora del potere è metafora della vita stessa, è apologo morale che ci obbliga a riflettere sulla precarietà della sorte umana, sulla sua mutevolezza imperscrutabile e spesso irragionevole” scrive Luciano Canfora consulente storico-filologico di questo 54° Festival.
Presentata in prima assoluta, la commedia vede il vanesio Demo (allegoria del popolo ateniese) adulato e raggirato dal rozzo e astuto servo Paflagone (controfigura del demagogo Cleone). Stanchi di essere tiranneggiati, due servi fedeli supportati dal coro dei Cavalieri (ostili al governo ateniese) che invocano gli dei perché vinca il migliore, favoriscono l’avvento di un nuovo governante, un salsicciaio ignorante e gaglioffo, la figura giusta per soddisfare gli umori: “Primo Ministro è chi riempie la pancia del popolo”.
Il testo, sfrondato dal turpiloquio originario e privato del finale consolatorio, tra scontri verbali, offerte di prelibatezze e lettura degli oracoli, è davvero profetico sullo stato della democrazia e della politica.
Francesco Pannofino ha le physique du rȏle e la cavernosità di Salsicciaio, Gigio Alberti la dinoccolata maestosità di Paflagone, Antonio Catania la noncurante vanità di Demo, Giovanni Esposito e Sergio Mancinelli interpretano i servi Demostene e Nicia, Roy Paci è autore delle musiche e suona la tromba del corifeo.
I costumi di Daniela Cernigliaro connotano i ruoli: mantelli sontuosi e scarpe dorate per Demo, indumenti sanguigni grondanti lunghe collane di insaccati per Salsicciaio, grottesche e abnormi le mascherature dei Cavalieri indossate dagli allievi dell’Accademia d’Arte del Dramma Antico che evocano felliniane figure circensi con teste abnormi e addomi prominenti.
Le scene mobili di Angelo Linzalata circoscrivono dentro una cornice bucolica il racconto ateniese, che tracima nella romana contemporaneità: dai Cavalieri al cavaliere.
Nihil sub sole novi.
Applausi. Con l’augurio che la commedia antica possa gremire le gradinate, come avviene da tempo con la tragedia.