Il secondo appuntamento con l’Iliade di quest’Estate Fiesolana è affidato ad Alessandro Riccio, che ci racconta l’episodio della morte di Patroclo, amico d’infanzia di Achille. Siamo nei canti XVI e XVII: l’esercito troiano non solo resiste all’assedio, ma riesce persino a oltrepassare le mura dell’accampamento acheo, insomma sembra che gli dei si siano schierati dalla parte di Troia. Intanto il più forte degli eroi greci, il pelìde Achille, offeso per aver dovuto cedere l’amata schiava Briseide ad Agamennone, non vuole combattere. Già Odisseo e Diomede hanno tentato di convincerlo a tornare in campo, ma inutilmente. Si reca allora da lui Patroclo, suo amico d’infanzia, che pure non riesce nell’intento, ma ottiene di poter indossare le armi del compagno, con le quali certo avrebbe spaventato i nemici. Così è, finché non si imbatte in Ettore, eroe e principe troiano, che lo ucciderà, con l’aiuto di Apollo.
Riccio coglie nella narrazione omerica un’essenziale natura fiabesca, che lo riporta a quando, ancora bambino, si rifugiava in soffitta per dare vita alle storie ascoltate o inventate. Quando una scopa diventava una lancia e un vecchio lampadario faceva da corona alla regina degli dei. Così, liberando dai vecchi bauli tutta la sua fantasia, recita i versi altisonanti dell’Iliade dall’alto di uno scaleo di bottega. Parola d’ordine: immaginazione. Come un bambino che s’ingegna a trasformare un oggetto dimenticato nel pezzo mancante di un gioco, Riccio crea i personaggi da vecchie stoffe, i dardi da lunghi bastoni, gli elmi da ceste e pentole. Omero, negli episodi di pura battaglia come quello del XVI canto, non si risparmia in precisazioni anatomiche e dettagli crudi, descrive anzi i combattimenti con una accuratezza cinematografica. Forse per questo loro aspetto di spietata realtà i poemi epici non sono tra le storie che si sentono più di frequente nelle camerette dei bambini, salvo adattamenti più o meno aderenti all’originale. Eppure, l’epica offre storie meravigliose, gesta e peripezie che non hanno nulla a che invidiare a quelle dei supereroi di più recente invenzione. E la violenza non va cancellata, anzi grazie al teatro, alla fantasia, alla finzione, la si può esorcizzare e se ne può perfino ridere.
Dopo un inizio esitante per l’emozione e per qualche imprevisto tecnico – la recitazione senza microfono ha senz’altro omaggiato opportunamente gli aedi – e dopo una lettura animata e animosa degli esametri, il cantore Riccio fa un balzo in avanti di parecchi secoli e legge al pubblico una lettera scritta da Umberto Eco al figlio Stefano. Il bimbo è ancora troppo piccolo, ma, quando crescerà, confessa il padre, gli regalerà fucili. Frecce, cannoni, pistole e mitragliatrici. Lui, convinto pacifista, gli insegnerà la guerra, quella dei libri e dei film western, quella dell’Iliade. Quella che purifica l’uomo dall’aggressività ferina che di tanto in tanto lo piglia. I Greci la chiamavano catarsi, ed era per loro una celebrazione che attraversava la religione e filosofia, approdando al teatro. Le ossa rotte, le teste mozzate, il sangue che sgorga dai corpi e, cadendo, si raggruma con la terra battuta e polverosa, tutta la crudeltà di cui solo l’uomo è capace resta, a fine spettacolo, sul palco. Riccio la osserva, insieme al pubblico, in un silenzio eloquente. I bambini seduti sugli spalti sanno bene che quel cocomero stritolato a colpi di sasso è la testa di un guerriero. Sanno bene che quel guerriero, che non esiste, ha sentito davvero male. E forse, da grandi, sapranno meglio di altri distinguere la violenza reale, e sfuggirla.
Per info: www.estatefiesolana.it