Interrogativi espliciti, problematici e se vogliamo anche scomodi quelli che la Biennale Teatro di quest’anno diretta da Antonio Latella affronta. Dopo il focus sulla regia (femminile) dell’anno scorso, dal 20 luglio al 05 agosto il programma del festival è incentrato sull’attore/performer e sulla parola/azione. Ha ancora senso oggi distinguere le due figure professionali sopracitate o siamo davanti al melting delle due? Nel teatro contemporaneo la parola possiede un ruolo dominante rispetto all’azione, o quest’ultima sta prendendo in qualche modo il sopravvento sul millenario logos? Attraverso l’incontro con i registi selezionati per questa edizione, la visione dei loro lavori e il processo creativo degli stessi indagato durante i vari college che costituiscono attività trasversale ma fondamentale del festival, questi importanti interrogativi vengono sviscerati e affrontati con precisione e forse anche coraggio, in un’Italia teatrale molto spesso rifugiata nel perbenismo e nella banalità travestita da tradizione.
Ho seguito la programmazione di Biennale Teatro da giovedì 26 a domenica 29 luglio, giorni centrali del festival. In scena la neozelandese Simone Aughterlony con Uni*Form; il coreografo e performer di stanza a Berlino Clément Layes con i quattro spettacoli Allege, Things that surround us, Dreamed apparatus e Title; la trentenne olandese Davy Pieters con How did I die e The unpleasant surprise; la franco-austriaca Gisèle Vienne con Jerk; la compagnia teatrale ligure Kronoteatro in Cannibali e lo scenografo campano Antonio Stellato con la performance Oblò.
Credo che in quasi tutti i lavori sia presente uno studio riguardante la parola: fatta eccezione per Jerk e Cannibali si assiste al predominio dell’azione, della drammaturgia scenica creata da movimenti, luci e trame musicali a discapito della parola, alla quale in alcuni casi viene affidato solamente un ruolo comunicativo di contorno tramite key words mentre in altri si preferisce non utilizzare completamente la vocalità del performer. Interessante poi notare come il manifesto del festival si inserisca alla perfezione nella riflessione che contrappone o annulla le due figure professionali dell’attore e del performer attraverso gli spettacoli in programmazione che, con esiti e intenzioni diversi, manifestano come si possano eliminare luci, scenografie, musiche, oggetti di scena e tutto ciò che in qualche modo rende lo spettacolo “spettacolare”. È solo uno l’elemento zero dal quale il teatro, forse ancor di più il teatro contemporaneo, non può prescindere: l’attore, o performer. Qualunque definizione si scelga di usare, i registi in scena alla Biennale sembrano sapere perfettamente che il fulcro di tutto è l’essere umano presente in quel qui e ora che fa la differenza con qualsiasi altro canale di comunicazione. Pur diversi nella forma, nel genere e nella realizzazione gli spettacoli ai quali ho assistito potrebbero essere accomunati riflettendo sui nuclei tematici affrontati e sviluppati.
La mini-rassegna di quattro spettacoli del coreografo e regista Clément Layes indaga il rapporto tra oggetti ed essere umano miscelando generi diversi come la danza e le arti visive unendole addirittura alla filosofia, la politica e l’ecologia. Il ragionamento di fondo consiste nel focalizzare l’attenzione drammaturgica su alcuni oggetti presi in prestito all’uso quotidiano e rivestirli di una diversa luce sotto i riflettori, vedendo come i performer si rapportano ad essi nello spazio. Allege parte dagli oggetti in equilibrio che, usati dal performer Vincent Weber e investiti di un senso svelato solo verso la fine della performance, acquisiscono dignità propria. In Things that surround us il gioco si complica: in scena ci sono ben tre performer (Felix Marchand, Ante Pavic e Vincent Weber) e una moltitudine tale di oggetti da scatenare un vero e proprio putiferio che insceni il processo cronologico degli stessi, dalla loro creazione al loro disfacimento. Sviluppato come installazione performativa e unito da un filo di continuità con il precedente lavoro sia per i performer scelti che per alcune azioni sceniche riproposte, Dreamed apparatus pone l’accento sullo scorrere del tempo attraverso disegni sul pavimento che i tre performer creano e cancellano come una perfetta catena di montaggio con polvere chiara e colpi di scopa che delineano e distorcono il significato dell’agire. Ultimo spettacolo sul “ciclo delle cose”, Title aggiunge un ulteriore elemento alla ricerca di Layes: in scena lui stesso come unico performer, elemento importante e imprescindibile diventa la musica dei tamburi rullanti suonati dal vivo da Steve Heather. In un susseguirsi di azioni che modificano continuamente l’ordine degli oggetti, le parole si fanno spazio per poi perdere irrimediabilmente di significato una volta ribaltato l’uso degli stessi oggetti, sparsi per il palco in traiettorie che li fanno sembrare realmente “vivi”.
Seguendo il fil rouge del rapporto tra essere umano e oggetti si potrebbe associare agli spettacoli di Layes l’installazione/performance dello scenografo e regista Giuseppe Stellato. Oblò accende i riflettori su un oggetto di uso quotidiano, familiare e rassicurante: la lavatrice. Posizionando su di essa microfoni che ne registrano suoni e rumori, Domenico Riso in scena dipinge di rosso una barra rettangolare mentre al lavaggio della lavatrice si aggiungono “immagini” acustiche curate dal live set di Franco Visioli. Rispetto alla poetica di Layes, qui siamo di fronte a qualcosa di più simbolico ma allo stesso tempo fortemente ancorato alla realtà: il rosso della vernice è la morte, il respiro affannato del bambino che si sente durante la performance è il segnale di qualcosa di terribile che sta per accadere e infatti sul clou la lavatrice, impazzita, esplode. Il caricamento della barra si interrompe, Riso apre quel che è rimasto dell’oblò e tira fuori dei panni striminziti, pantaloncini di jeans e una t-shirt rossa, divenuti tristemente famosi nell’estate del 2015 in Turchia.
Altri importanti temi presenti nei lavori visti in Biennale, la violenza e il potere. A partire da Jerk, spettacolo del 2008 che la regista Gisèle Vienne ha creato partendo dai cruenti fatti di cronaca riguardanti il serial killer Dean Corll e i complici David Brooks e Elmer Wayne Henley. Jerk è un monologo interpretato da uno straordinario performer, Jonathan Capdevielle, che incarna Brooks alle prese con pupazzi che sembra abbia realmente imparato ad usare in carcere. Tramite il doloroso racconto mediato dal teatro di figura, lo spettacolo dipana le tappe degli omicidi della gang, sviscerando realtà e fantasia attraverso un medium che a tratti impone distanza ma anche reale immedesimazione.
La violenza è al centro dei due spettacoli della giovane regista olandese Davy Pieters che, con differenti esiti, riflette sull’impatto che i media hanno sulla nostra mente nel presente storico carico di eventi drammatici in cui viviamo. How did I die mette in scena un omicidio servendosi di rewind che inducono lo spettatore a cambiare prospettiva secondo le azioni giocate sul palco di volta in volta. Attraverso un sapiente lavoro di microazioni da parte dei performer Klàra Alexovà, Nina Fokker e Joey Schrauwen, tre fondali a tendina che collocano spazialmente la scena e l’importante ausilio della musica che si fa tessuto drammaturgico, lo spettacolo ricostruisce in modo visivo e cinematografico tutta la cruda realtà dell’omicidio di una giovane ragazza. The unpleasant surprise invece scava più a fondo nei meandri dell’immaginazione mediata dalle immagini, realizzando la paranoia di un ragazzo così ossessionato dalla miriade di eventi violenti visti in televisione, da non distinguere più fra realtà vera e realtà mediata. Klarà Alexovà, Niels Kuiters e Rob Smorenberg, solamente con la potenza delle azioni e dei movimenti, senza l’ausilio di alcuna parola ma con un’importante apporto musicale, conducono un lavoro di squadra perfettamente calibrato e mai scontato nonostante l’enfatizzazione dei comportamenti da “violenza romanzata” a cui siamo abituati dai media e i social network.
Il potere, il suo abuso e la sottomissione sono le tematiche affrontate dalla neozelandese Simone Aughterlony con Jorge Leòn in Uni*Form. Un campo di addestramento militare, bambini che corrono e si inseguono travestiti da poliziotti e poi improvvisamente il nulla. Questo l’inizio della performance, giocata tra stereotipi sul potere e sul suo rovesciamento attraverso le azioni seguenti, anche in questo caso mute, di performer adulti in divisa (la stessa regista, David Freeman, Nada Gambier, Kiriakos Hadjiioannou, Jen Rosenbilt, Hahn Rowe e Gary Wilmes). Il sottile equilibrio fra dominatore e dominato, fra uso e sopruso si delinea nei quadri scenici che si susseguono come in un vortice volto a smascherare la vulnerabilità dell’essere umano al di là di ogni ruolo sociale.
Unico spettacolo italiano visto durante la mia permanenza alla Biennale ad eccezione di Oblò di Stellato, Cannibali della compagnia Kronoteatro si può accostare al nucleo tematico riguardante il potere, anche se una sostanziale differenza rispetto a quasi tutti gli altri lavori sta nel linguaggio. Cannibali infatti è uno spettacolo principalmente di parola. In scena Tommaso Bianco, Alex Nesti e Maurizio Sguotti raccontano situazioni familiari e sociali provenienti dal vissuto che accomuna tutti ponendo l’accento fra incontro scontro: padre/figlio, insegnante/alunno, datore di lavoro/impiegato e via dicendo.
Il mio personale bilancio su questa edizione della Biennale è decisamente positivo, come già accennato prima credo ci siano i presupposti affinchè, grazie alle scelte di mission e programmazione del direttore artistico Latella, Venezia goda di nuovi slanci e freschi linguaggi teatrali che mi auguro possano essere stimolo anche nel nostro bel Paese.