Alla fine vince Rossini
Finalmente un Barbiere dalle linee classiche, poco mosso in palcoscenico e con la Sinfonia a sipario chiuso non popolata.
Riconoscibili le linee e i colori di Pier Luigi Pizzi negli ambienti e nei costumi: bianche, geometriche e con balcone le abitazioni dirimpettaie del conte e di Rosina, bianco il cielo per una luminosità diffusa, come nel Così fan tutte sempre di Pizzi, bianchi e neri gli abiti con qualche pennellata di viola (tipico di Pizzi) per Bartolo e Berta, di rosso per i mantelli e di celeste e verde acqua per gli abiti della bella Rosina, qualche giovinotto a dorso nudo (il conte s’infila la camicia sul balcone di casa sua, Figaro attraversa la passerella intorno all’orchestra a petto nudo, perfino il vecchio Ambrogio (interpretato da Armando De Ceccon) viene semispogliato da un raptus della focosa vecchia Berta), suggestive figure in controluce sul muretto. I suonatori di Fiorello si muovono compatti come stormi d’uccelli neri e fremono alla vista del denaro, Figaro si lava in una vasca da bagno di lato (come Anna Caterina Antonacci in Un giorno di regno, boh! Forse è all’interno della sua bottega che non compare in scena chiaramente).
I moduli architettonici non fissi permettono il cambio degli ambienti, interni ed esterni sempre ben comprensibili nel rispetto delle indicazioni del libretto. Qualche trasparenza negli abiti morbidi e di diversi colori di Rosina, vestaglie signorili per Bartolo che non è un “vecchio panzone”, ma un compunto e nobil signore con la erre alla francese (noblesse obblige o omaggio a Beaumarchais?). La trovata registica più favolosa e originale è stata quella di aver trasformato il conte in un maestro di musica nano, facendolo camminare con le ginocchia alle quali erano state legate delle scarpe per simulare i piedi. Comica la deambulazione, esilarante i cambi di posizione, da inginocchiato davanti a Bartolo a ritto con scatto repentino per star accanto a Rosina quando Bartolo guardava altrove.
La gioventù, la prestanza fisica e la versatilità di Maxim Mironov e di Davide Luciano hanno favorito certe scelte registiche.
Notevoli infatti le abilità attoriali dei protagonisti, con punti di merito alla frenetica mobilità di Davide Luciano come Figaro, alla vezzosa e civettuola freschezza di Aya Wakizono come Rosina, alla credibilità scenica di Maxim Mironov (Conte d’Almaviva), alla maestria di Elena Zilio in Berta. La gestualità era invece troppo contenuta per Bartolo e Basilio, sì che le loro figure, risultate più caricaturali che maniacali, sono rimaste piuttosto generiche. Il più penalizzato è stato Don Basilio che andava caratterizzato nel gesto, nelle espressioni e non con la balbuzie, che trasmette poi anche a Don Alonso.
Ne è derivato anche il sacrificio della resa vocale. Non ho riconosciuto la bella vocalità di Pietro Spagnoli in Bartolo, così preso a scandire le parole con la erre moscia dall’alto della sua figura di nobilomo impettito. Nell’aria “A un dottor della mia sorte” la voce, pur non favorita da un’orchestra troppo sonora, è emersa nella tessitura acuta, ma il sillabato è risultato approssimativo. Esilarante l’aria di Caffariello cantata in falsetto.
Non mi è arrivato il suono pastoso e scandito della voce di Michele Pertusi, se non nelle arcate più larghe, in un Don Basilio un po’ distratto. “La calunnia” non ha avuto forza persuasiva né è stata insinuante e devastante. Nella scena della febbre è mancato lo stupore. Più peperoncino per Don Basilio e meno tabacco da annusare per i servitori sarebbe stato meglio.
Sarà colpa della cattiva acustica e visibilità dell’Adriatic Arena? Perché dalle ultime file dove mi trovavo avevano difficoltà a vedere e a sentire e non solo io.
E quindi anche le voci di Aya Wakizono e di Maxim Mironov, pur essendo di bel timbro e ben gestite, rimanevano poco udibili, quella di Fiorello è rimasta proprio in palcoscenico, eppure William Corrò ha una bella voce di baritono; mentre quella screziata di Elena Zilio è passata alla grande grazie alla sua esperienza e quella di Davide Luciano si sentiva da ogni angolazione.
Non vedendo i visi degli artisti inoltre era difficile captare le loro espressioni, che sono fondamentali in certe scene, non riuscendo a capire le parole né a leggere le didascalie troppo piccole era difficile seguire l’azione per chi non conosce l’opera a memoria, sentire le voci nei momenti di maggior espansione sonora e quando gli artisti si spostavano sulla passerella attorno all’orchestra non ha reso godibile la tanto attesa serata. La location non è adatta all’opera lirica, a meno che non ci siano voci capaci di uscire dalle pareti del palcoscenico ed espandersi in platea superando anche l’handicap degli angoli di una sala quadrata.
La riguarderò in TV per godermi i primi piani e per un ascolto più soddisfacente.
Comunque per quel che ho potuto sentire Mironov si è distinto per la soavità della voce, emissione accurata, acuti lanciati chiarissimi (“Ecco ridente in cielo” con la chitarra di Eugenio Della Chiara, parte riscoperta da Zedda), delicate mezze voci nella serenata “Se il mio nome”, accompagnata in palcoscenico da Figaro stesso, ossia Davide Luciano), nel rondò dell’Inutil precauzione con l’accompagnamento di un violoncellista pazzo in scena ha gestito bene il suo mezzo vocale, molto cautamente ha affrontato la difficilissima aria “Cessa di più resistere” con corretti vocalizzi ma poco scintillio.
Aya Wakizono ha evidenziato bel colore, buone agilità, ma poco spessore, con gravi indecisi e a volte intubati, per cui il canto a volte sembrava accennato, nonostante la capacità ad eseguire gorgheggi e luminosi slanci acuti (cavatina “Una voce poco fa”) e una vocalità duttile nelle note ribattute e nel sillabato fitto (“Dunque io son”). Dizione straniera con la erre raddoppiata.
Davide Luciano ha esibito voce robusta di bel colore, a volte usata in modo irruente, ma anche variegata nei colori e nell’intensità, con buona proiezione acuta, pastosità nei recitativi. Bravo interprete e vivace attore, la sua voce è l’unica ad emergere nella nota pagina “Fermo ed immobile” con quella del corposo coro maschile che insieme all’orchestra domina nei concertati.
Bravissimo il Coro del Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno, preparato da Giovanni Farina. Solo sedici uomini, con ottime qualità vocali per colore, spessore, volume, estensione, morbidezza, tecnica, hanno restituito un amalgama sonoro di alta qualità e un’avvolgente flusso musicale insieme alla brava Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, diretta dal M° Yves Abel, esperto direttore rossiniano. Dalla Sinfonia diretta e suonata fantasticamente col crescendo finale alle delizie musicali di pagine più scoperte, dalla pienezza sonora nei concertati al ricamo finissimo di certe situazioni inaspettate, direttore e orchestra si sono mossi entro le linee tracciate dal compositore.
Regista collaboratore e alle luci Massimo Gasparon.