Lo spirito dell’operetta rivisitato con la raffinatezza e la versatilità che Gennaro Cannavacciuolo sa trasfondere nelle sue performance.
Rimasto in stallo dopo il debutto nel 2005 a Cividale del Friuli, torna sui palcoscenici questo excursus storico sulla musica e la società della Belle Époque, seguendo le tracce di un copione ritrovato nell’archivio musicale del Teatro Lirico di Trieste.
Il narratore è Louis Treumann, cantante lirico e attore austriaco, primo interprete nel 1905 del conte Danilo Danilowitsch ne “La vedova allegra”, osannato in patria e amato perfino dal Führer, che scandisce le tappe dell’operetta viennese in un’atmosfera di allegra spensieratezza, inconsapevole preludio alla catastrofe nazista.
Cannavacciuolo, eclettico e versatile in travestimenti e trasformismi direttamente in scena, con delicata raffinatezza veste i panni dei personaggi più significativi del lavoro di Lehár (il conte Danilo, Hanna Glawari, Njegus, Valentienne, il barone Zeta). Canta, danza, racconta seguendo il fil rouge di un ventaglio, strumento di seduzione per maliziosi ammiccamenti o filtro pudico di messaggi criptati, variando registro interpretativo dal comico al drammatico, dallo scanzonato al grottesco in un gioco equilibrato ed elegante fra nostalgia e divertimento, intercalato dagli intermezzi danzati di due ballerini che si esibiscono anche in un gustoso cancan.
Le vicende sentimentali della buona società di fin de siècle permeano l’atmosfera dello spettacolo, con i ritmi e gli abiti anche dei due ballerini nei ruoli femminili, sulle note del trio orchestrale di musicisti che suonano dal vivo: al pianoforte Dario Pierini, al clarinetto e sax contralto Andrea Tardioli e al violino Piermarco Gordini.
L’artista sfodera tutta la gamma di registri espressivi, canta in falsetto, si mimetizza dietro abiti ottocenteschi e sontuosi cappelli piumati tessendo il mosaico delle futilità di un mondo evanescente e libertino tra cui si insinuano alcuni flash della drammatica contemporaneità che sfocerà nell’epilogo temuto: l’arresto del tenore, l’internamento nel campo di concentramento di Theresienstadt e la fucilazione.
Scritto da Gianni Gori su un’idea di Alessandro Gilleri, il testo coniuga la levità del teatro di genere con la tragicità della storia, culminando con le leggi razziali e la deportazione che colpiranno anche l’ebreo Treumann.
La rosa rossa sulle grigie scale che prima ne avevano testimoniato i trionfi, sintetizza la fine cruenta di un’epoca.
Con poliedrico talento Cannavacciuolo, fine dicitore senza essere caricaturale, raffinato ma non lezioso, brillante ma non macchiettistico, ripercorre tre decenni di inizio Novecento aleggiando tra storia e amenità in un vortice di arie, abiti e destrezze, condividendo la regia con Roberto Croce.
Giovanni De Domenico e Fulvio Maiorani sono aerei e ironici nei volteggi in abiti maschili e femminili e ci regalano un cancan delizioso sullo sfondo della mutevole scenografia di Alessandro Chiti, essenziale ed evocativa, con il supporto di inserti audiovisivi.
Cannavacciuolo è ormai una certezza. Ogni sua esibizione coglie l’anima del personaggio e del contesto, con una puntualità e levità incommensurabili, librandosi con leggiadra briosità sulle corde della nostalgia.