Il Festival in occasione del suo decennale debutta a Roma e, incredibile ma vero, presenta in prima esecuzione romana Il Ritorno di Ulisse in Patria di Monteverdi. La sede prescelta è il Teatro di Villa Torlonia, recentemente riaperto al pubblico, un gioiello architettonico particolarmente adatto ad ospitare opere del repertorio antico. La direzione dell’opera è affidata a Alessandro Quarta, la regia a Cesare Scarton. Il cast è formato da giovani talentuosi cantanti.
Il ritorno di Ulisse in patria, una delle tre opere rimaste della produzione teatrale di Claudio Monteverdi, oltre a L’Orfeo e a L’incoronazione di Poppea, ebbe la sua prima rappresentazione a Venezia nel 1640 presso il Teatro di Santi Giovanni e Paolo. A differenza di queste due opere, non è mai stato eseguito nel corso della sua lunga storia a Roma né in tempi antichi né in riproposte moderne. Pertanto una sua rappresentazione in questa città costituisce una prima assoluta, conferendo un valore particolare alla proposta.
L’unico manoscritto a noi pervenuto è conservato a Vienna presso la Österreichische Nationalbibliothek dove venne “scoperto” casualmente nel 1881 con il titolo Il ritorno di Ulisse: faceva parte della Schlafkammerbibliothek dell’imperatore Leopoldo I, che raccolse negli anni un cospicuo numero di partiture. Amico del compositore, Giacomo Badoaro, autore del libretto, drammatizza con una certa libertà le vicende contenute nei libri xiii-xxxiii dell’Odissea di Omero. Si tratta forse dell’opera più meditativa e introspettiva di Monteverdi, che raggiunge vertici assoluti nell’invenzione musicale e nella penetrazione psicologica dei personaggi, tutti raffigurati con la consueta affascinante verità d’accenti del teatro monteverdiano. L’opera al suo apparire riscosse un grandissimo successo: alle dieci rappresentazioni veneziane, eseguite davanti a un teatro sempre affollato ed entusiasta, fecero seguito di lì a poco dopo altre recite a Bologna presso il Teatro Guastavillani. Indizio del grande favore riscosso dalla partitura monteverdiana è il fatto che essa venne riproposta a Venezia l’anno successivo, fatto molto insolito per l’epoca, data la tendenziale ostilità da parte del pubblico locale nei confronti di opere già ascoltate in precedenza.
Questa prima ripresa romana verrà realizzata dal Reate Festival in collaborazione con la Fondazione Sordi per i giovani, l’Accademia Filarmonica Romana, il Teatro di Roma, il Teatro dell’Opera il 5, 6, 7 ottobre a Roma presso il Teatro di Villa Torlonia e il 10 ottobre a Rieti presso il Teatro Flavio Vespasiano. La direzione musicale è affidata ad Alessandro Quarta che dirigerà il Reate Festival Baroque Ensemble, la regia sarà curata da Cesare Scarton, le scene sono di Michele Della Cioppa, i costumi di Anna Biagiotti, le luci di Andrea Tocchio. Il cast è formato da giovani cantanti talentuosi tra cui Mauro Borgioni nel ruolo di Ulisse e Lucia Napoli nel ruolo di Penelope.
Il Reate Festival è realizzato con il contributo di: Direzione Generale dello Spettacolo dal vivo, Regione Lazio, Fondazione Alberto Sordi per i giovani (che ha ospitato presso Villa Sordi la Conferenza stampa di Paertura), ENI, Lottomatica, Poste Italiane, SIAE, COTRAL, ASM, Areoporti di Roma, Unindustria. In collaborazione con: Accademia Filarmonica Romana, Teatro dell’Opera di Roma, Teatro di Roma, MIUR, Europa In Canto, Museo Civico di Rieti, Biblioteca Comunale Paroniana Rieti, Istituto Magistrale Elena di Napoli di Rieti, Pontificio Organo Dom Bedos Roubo, Fondo Edifici di Culto, Archivio di Stato di Rieti. Soci fondatori della Fondazione Flavio Vespasiano di Rieti sono: Comune di Rieti, Fondazione Varrone, Camera di Commercio di Rieti. Socio sostenitore: Intesa San Paolo
———
Note di regia
«Straniero, non è mio costume – venga pur uno più malconcio di te –
trattar male gli ospiti: tutti da parte di Zeus
vengono gli ospiti e i poveri […]».
OMERO, Odissea, XIV, 56-58
«Perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare,
ho avuto sete e mi avete dato da bere,
ero forestiero e mi avete ospitato,
nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato,
carcerato e siete venuti a trovarmi».
MATTEO, Vangelo, 25, 35-36
Il ritorno di Ulisse in patria di Claudio Monteverdi, su libretto di Giacomo Badoaro, è stato rappresentato per la prima volta al Teatro dei Santi Giovanni e Paolo di Venezia nel 1640 e, a quanto se ne sa, non è mai stato eseguito nel corso della sua lunga storia non solo a Rieti, ma neppure a Roma. Il Reate Festival, dedicato alla valorizzazione del melodramma e del belcanto, ha dunque sentito come suo dovere imprescindibile colmare questa grave lacuna, mettendo in scena tale opera sia a Roma che a Rieti.
Confrontarsi con un simile capolavoro è senz’altro arduo perché, delle tre opere di Claudio Monteverdi, Il ritorno di Ulisse in patria è forse quella meno organica e unitaria: le numerosissime scene, perlopiù rapide e concise, si susseguono in una sorta di montaggio quasi cinematografico che, se da un lato produce un ritmo incalzante, dall’altro può suscitare l’impressione di una certa frammentarietà.
Inoltre, il libretto di Badoaro lascia largo spazio agli dèi che intervengono attivamente, guidando il corso della vicenda: una concezione che determina una netta cesura tra il mondo umano e quello divino, ai quali vanno conferite modalità rappresentative necessariamente diverse, in grado di esplicitare i due piani su cui si svolge l’azione.
Da qui la scelta di far indossare ai personaggi umani abiti contemporanei e agli dèi costumi di fine Ottocento-inizio Novecento, l’epoca di costruzione di entrambi i palcoscenici nei quali viene oggi eseguita l’opera, il Teatro di Villa Torlonia di Roma e il Teatro Flavio Vespasiano di Rieti. Tali costumi rimandano all’élite all’epoca dominante che ha eretto quei teatri come autocelebrazione e manifestazione tangibile del proprio potere, lo stesso esercitato in epoca antica dagli dèi sugli uomini. Nel prologo compaiono anche tre personaggi allegorici, Tempo, Fortuna, Amore, che sembrano incarnare un’autorità ancora più alta di quella divina: esprimono infatti l’Anánke, il Fato, la forza primordiale sotto cui non può che soccombere l’Umana Fragilità.
Questa incertezza e labilità della condizione mortale si riflette in una scenografia che allude a un edificio sventrato, a un’antica reggia in rovina, un luogo che emerge come un’isola continuamente erosa dal mare del dubbio e del caos, ma carica di memorie familiari, sovvertite e contraddette dalla presenza di una nuova generazione priva di scrupoli e assetata di piaceri.
Uno scontro generazionale che si verifica quando i valori tramandati ed ereditati dai padri entrano in conflitto con un modello che risponde ad altre esigenze. Ulisse, la consorte Penelope, il pastore Eumete, la nutrice Ericlea sono gli esponenti di un mondo legato all’etica del dovere, alla fedeltà, al rispetto delle norme umane e divine, al sacro obbligo dell’accoglienza e dell’ospitalità, mentre i Proci incarnano un’esistenza che opta per le apparenze, il lusso, il capriccio, il godimento e che ha il piacere come sua unica legge. Così, se il pastore Eumete accoglie Ulisse, giunto a Itaca sotto le mentite spoglie di un vecchio mendicante, celebrando, con il dono del pane e del vino, una sorta di “cerimonia eucaristica”, nella nuova società, dominata da un individualismo che non conosce generosità e dedizione, non c’è più posto né per profughi né per stranieri, come dimostrano i Proci che non esistano a insolentire il mendicante arrivato nella reggia di Itaca.
Uno scontro generazionale che penetra in qualche modo nella stessa famiglia di Ulisse, perché il figlio Telemaco sembra in bilico tra questi due mondi, dominato da un lato dalla imponente figura paterna, ma dall’altro attratto dai Proci suoi coetanei, sensibile anche lui a modelli edonistici, in nome dei quali sembra giustificare, irritando la madre Penelope, la condotta di Paride ed Elena. Ma è perfino la stessa Penelope a percepire una sia pur vaga e confusa inclinazione per il mondo scintillante dei giovani e attraenti Proci, anche se è sempre pronta a riprendere in tempo il suo ruolo di sposa fedele.
Se Ulisse e Penelope, alla fine dell’opera, possono finalmente ricongiungersi, appaiono però come gli esponenti di una società ormai sulla via del tramonto, perché nella loro stessa casa è penetrato quel sovvertimento morale portato dai Proci, di cui è impossibile eliminare ogni traccia. Del resto, il duetto che chiude l’opera non assume i toni di una gioia incontenibile, ma piuttosto quelli di una crepuscolare tenerezza: non l’immacolato chiarore dell’aurora di un nuovo giorno, non la raggiante riconquista, dopo tanto patire, di una nuova rassicurante esistenza, ma la consapevolezza di essere ormai fuori dal tempo, epigoni di un mondo che non sarà più lo stesso.
Cesare Scarton
——–
Orario spettacoli:
Roma, Teatro di Villa Torlonia: 5 e 6 ottobre ore 20, 7 ottobre ore 18
Rieti, Teatro Flavio Vespasiano 10 ottobre ore 21
——–
Orario botteghino:
Roma, Teatro di Villa Torlonia: 5 e 6 ottobre ore 15:00 – 21:00;
Rieti, Teatro Flavio Vespasiano: 9 ottobre ore 15:00 – 20:00 – 10 ottobre ore 09:00 – 13:00 / 15:00 – 21:00; Giorno dello spettacolo: 09:00 – 13:00 / 15:00 – 21:00
Tel: 0746 252675, Cell: 327 5430212
info@reatefestival.it – promozione@reatefestival.it