Venerdì scorso il Teatro di Rifredi di Firenze ha ospitato la prova aperta di Storto, spettacolo di inQuanto teatro vincitore del premio Scenario Infanzia 2018. A circa un mese e mezzo dalla prima (debutto il 26 novembre a Parma, al Teatro delle Briciole), la compagnia ha voluto confrontarsi col pubblico, in special modo con i professori delle scuole, a cui saranno dedicate le matinée (ad oggi tutte fissate per febbraio: a Vicenza il 7, a Mira l’8, al Teatro di Rifredi dall’11 al 15, con replica il 15 sera). Al termine della prova autori, attori e regista si sono fermati a dialogare con la sala, pronti a rispondere alle domande e ad accogliere osservazioni e suggerimenti. Non ancora stanchi, si sono prestati alla chiacchierata da cui nascono queste righe. Può sembrare solo una cronaca, ma è in realtà già questa una peculiarità dello spettacolo. Storto è un lavoro collettivo, ancora in progresso, che nasce da un testo autobiografico di Matilde Piran e, attraverso il dialogo con Andrea Falcone, arriva nelle mani di inQuanto teatro, che lo converte in una forma drammaturgica diretta da Giacomo Bogani e interpretata da Elisa Vitiello e Davide Arena. Ognuno di loro ha condiviso con gli altri il proprio essere storto, tentando di raddrizzare il meno possibile gli altri – o quanto meno, per fortuna, non riuscendoci – e tutte le varie stortezze sono confluite in un testo che parla di storture in modo molto dritto.
Il Premio Scenario Infanzia, dedicato agli artisti di età inferiore ai 35 anni, prevede la presentazione di un estratto della durata di cinque minuti, da ampliare nella fase finale, fino alla costruzione di una rappresentazione completa da proporre al pubblico. Una genesi complessa, che trova spazi e tempi di crescita e di mutamento, che esige un impegno continuo di ricerca e perfezionamento.
Ma di che parla Storto? È la storia di Elisa, storta, con un fratello storto, e di Davide, storto pure lui. È la storia di un viaggio, anzi di una fuga. È la storia di un muro che va abbattuto con gli stessi mattoni con cui è stato costruito. Perché Storto parla di diversità e di disabilità, e lo fa «dando il giusto nome alle cose», come dice Matilde. «Quando le cose un nome ce l’hanno» precisa Andrea. Storto infatti non parla solo di una diversità manifesta, ma scova anche quelle meglio celate e con una visione ampia e cosciente, priva di filtri, affronta di petto le fragilità, non ne prende solo atto. Per ammettere, poi, che qualche fragilità ce l’hanno tutti, al liceo: chi è disabile, chi è omosessuale, chi legge fumetti strani, chi è grasso. Chi è brutto perché è anche brutto, chi è bello perché è solo bello. Tutti. «Questa collaborazione è nata da una sensibilità affine: la volontà di dar voce a storie “minime”, normali e la convinzione che ci sia bisogno di onestà e in una certa misura di “spietatezza” per veicolare dei contenuti ai più giovani, nel rispetto della loro intelligenza». La spietatezza è quella di cui sono capaci i ragazzi, abituati a usarla e a toccarla con mano nel loro ambiente, ma non in un luogo neutro, adulto, quasi istituzionale come il teatro. Qui, le parole senza filtri rimbombano più che altrove, andando dritte al bersaglio. Storto mette in scena l’ingenuità del male, lo fa con un linguaggio che non nasconde, non parafrasa e non giudica, ma mostra, decifra e un po’ assolve. La provocazione non ammette indifferenza, che è il pericolo più grosso: non differire significa non distinguere, considerare tutto uguale. Non siamo affatto tutti uguali, nessuno è dritto e ognuno è storto a modo suo. Tutto sta nel riconoscerlo e nel riconoscersi; e si torna ancora lì, alle parole con cui chiamiamo le cose, che spesso sono sbagliate quando le scegliamo come “politicamente corrette” mentre sono semplicemente bugiarde. Un’insegnante alla fine dello spettacolo ha parlato dell’«alfabeto emotivo» che fornisce, facendo illuminare gli occhi alla compagnia, che aveva proprio l’obiettivo di creare «un vocabolario comune per l’affermazione del sé». Un vocabolario pronto all’uso, quotidiano, non imposto dal comportarsi per bene e dal fare le cose a modino. Dunque, il lessico gergale dei ragazzi, col sottofondo delle canzoni che passano alla radio, i riferimenti alle serie tv del momento, i fumetti un po’ splatter di Mattia BAU Vegni. Insomma una messaggio chiaro, che non lascia spazio a fraintendimenti e arriva dritto al punto. Lo fa senza fatica, abbattendo in primis le barriere tra chi parla e chi ascolta, che non sono poi tante. La compagnia fa leva sulla giovane età di tutti i suoi membri – non si ammettono eccezioni nemmeno per disegno luci e tecnica, affidati a Monica Bosso – e allo stesso tempo sulla maturità che hanno acquisito sui banchi di scuola. Non quella cartacea, con l’ufficialità del timbro, quanto quella forgiata dalle esperienze adolescenziali, che tornano inevitabilmente alla mente, lavorando su un testo dalle note così vivide.
Matilde, Andrea, Giacomo, Elisa e Davide alla fine un po’ stanchi erano, venerdì scorso, e anche un po’ sudati, ma non brillavano per questo. Erano lucidi di un messaggio in cui credono, in cui si sono imbattuti e poi sono precipitati, fino a conoscerne gli angoli più nascosti. «Bisogna semplificare, ma non quando si parla di emozioni», mi hanno detto. Il loro lavoro semplifica il mezzo per valorizzare il contenuto, mostrarne la complessità, che è quello che fa il teatro, soprattutto quello per ragazzi, quando funziona: racconta una cosa complicata in modo semplice. Chi sta seduto in platea la afferra e la fa sua, adattandola alla propria vita. È difficile spiegarla, va vista.
Storto è uno strumento prezioso per i professori, perché spiega quello che una lezione frontale non potrà mai insegnare, e lo è per i ragazzi, perché ha quella brutale sincerità di cui hanno un disperato bisogno.