Hans Op de Beeck crea per la Stuttgart Oper un’esperienza teatrale intensa e inconsueta. Complici i lavori di ristrutturazione del teatro, l’artista belga mette in scena Il castello del duca Barbablù (A kékszakállú herceg vára), composto da Béla Bartók e Béla Balázs nel 1911, in un grande spazio industriale dismesso, il Paketpostamt (l’ex magazzino dei pacchi delle poste). L’enorme e cupo capannone è un luogo ideale per rappresentare questa storia senza tempo e Hans Op de Beeck, artista visivo e maestro nel mischiare mezzi espressivi diversi, plasma con maestria il messaggio simbolico dell’unica opera di Bartók. L’artista belga realizza un vero e proprio rito in cui perfino l’ingresso alla rappresentazione diventa una piccola liturgia: le comparse del teatro per una volta diventano maestri di cerimonia e prima spiegano agli spettatori il senso della serata (manca infatti nell’esecuzione dell’opera il prologo solitamente recitato da un bardo) e poi li accompagnano al loro posto. Previa vestizione di calosce fornite dal teatro. Si entra difatti in una distesa allagata (il mare delle lacrime della penultima porta del castello?) e si cammina con l’acqua alle caviglie. Nel mezzo dell’antro buio del Paketpostamt appare un lungo pontone di legno proteso sull’acqua. Bidoni di benzina illuminano fiochi la tenebra. Si attraversa questa palude con movenze da acqua alta a Venezia, fino a riguadagnare l’asciutto per accomodarsi ai nostri posti, divisi in vari settori attorno al luogo dell’azione. Nel frattempo l’aere sanza stelle del vecchio deposito riecheggia di sussurri e voci fioche che rimandano a un girone dantesco. Una volta sistemati tutti gli spettatori, arriva Titus Engel in bicicletta, si toglie la cerata, sale sul podio e la recita vera e propria ha inizio.
Tutta l’azione si svolge su quella banchina alla fine di un qualche mondo senza colori, fra isolette di sabbia, tronchi rinsecchiti, relitti di vita quotidiana. Vecchi copertoni. Una landa desolata che rende alla perfezione l’atmosfera di straniamento e di solitudine della pièce. Barbablù è sul molo quando arriva Judith, zaino in spalla. Una globetrotter a giro per il mondo. I due cominciano a interagire, si avvicinano e si allontanano come le orbite di due pianeti che mai si incontreranno. Judith vorrebbe portare luce nella tenebra del castello. Chiede con insistenza che si spalanchino le porte delle stanze del maniero, simbolo dell’animo e del passato nascosto di Barbablù. Nello spettacolo di Hans Op de Beeck mancano le porte e l’esplorazione progressiva del mondo di Barbablù è portata avanti dalla musica, dalla recitazione dei due cantanti e dai giochi sapienti di luci e ombre. Il pubblico condivide lo stesso spazio dei protagonisti e in qualche modo pare avere un ruolo se non proprio attivo, almeno vagamente voyeuristico. Lui è accigliato, refrattario ad aprire i suoi segreti. “Judith, ama e non domandare”. Lei è decisa, una donna forte. Lo ama e vuole conoscere. “Io voglio sapere!”. Fino all’inevitabile separazione. Judith riprende il suo zaino e se ne va com’era arrivata (e già le va bene rispetto al finale standard della favola di Bartók e Balázs). Barbablù riprende la sua bici ed esce dalla scena. A volte troppa conoscenza nega l’amore.
L’installazione di Hans Op de Beeck crea una full-immersion nella favola, ma è impossibile che la potenza drammatica e simbolica della musica di Bartók finisca in secondo piano. L’opera, di cui ricorre quest’anno il centenario della prima assoluta, è un breve atto unico da centellinare attimo per attimo, attraverso tutti i tableaux che lo compongono. Partendo dalla fosca sezione iniziale cambiano i colori della narrazione e i volumi orchestrali si espandono fino all’apoteosi sonora della quinta porta (con gli ottoni schierati dal lato opposto dell’orchestra), per poi recedere via via che si scivola verso il cupo finale. Titus Engel guida con precisione e chiarezza la Staatsorchester Stuttgart facendo risaltare tutti i ricchi particolari della trama intessuta da Bartók: dai passaggi più intimi a quelli in cui prevalgono i clangori più drammatici, come nella camera della tortura.
I due antieroi si calano alla perfezione nello stile vocale dell’opera di Bartók, fatto di recitativi brevi, spesso spezzettati, che poi si dilatano verso momenti di appassionato lirismo. Claudia Mahnke è una Judith di grande intensità. Il mezzosoprano, in un ruolo che è uno dei suoi cavalli di battaglia, restituisce con la voce e il gesto tutta la gamma dei sentimenti che passano nell’animo della protagonista: dalla speranza, alla paura, allo sconforto finale. Il basso-baritono Falk Struckmann, vestito da pensionato di lungo corso, è un Barbablù disincantato e di forte impatto per vocalità e recitazione. Alla fine grandi applausi per tutti i protagonisti di questo spettacolo che rimarrà nella memoria, se non altro per la sua particolarità nel raccontare lo psicodramma Bartokiano.
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Herzog Blaubarts Burg (A kékszakállú herceg vára)
di Béla Bartók
Opera in un atto
Libretto di Béla Balázs
in ungherese con sovratitoli in tedesco
Una copruduzione con Studio Hans Op de Beeck
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Direttore Titus Engel
Installazione, regia, costumi e luci Hans Op de Beeck
Drammaturgia Barbara Eckle, Julia Schmitt
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Cast
Herzog Blaubart Falk Struckmann
Judith Claudia Mahnke
Staatsorchester Stuttgart