con: Gabriele Lavia, Laura Marinoni, Federica Di Martino
di: Henrik Ibsen
traduzione: Danilo Macrì
e con: Roberto Alinghieri, Giorgia Salari, Francesco Sferrazza Papa, Roxana Doran
scene e costumi: Guido Fiorato
regia: Marco Sciaccaluga
produzione: Teatro Nazionale di Genova, Teatro Stabile di Napoli, Fondazione Teatro della Toscana
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Si alza il sipario e lo spettatore è subito rapito dalla scenografia di Guido Fiorato, che riporta nell’ambientazione scenica i tratti simbolici della pittura figurativa di Munch, impregnando il teatro dell’atmosfera tipica della terra scandinava e del suo popolo, inesorabilmente chiuso nella sua solitudine, fatto di uomini incapaci di compromessi e di mezze misure; segni drammaticamente crudi della realtà.
Così si presenta al pubblico lo spettacolo di Marco Sciaccalunga che, suggerendo fin dall’inizio il tema struggentemente poetico di “John Gabriel Borkman”, sembra voler instillare nell’inconscio di chi osserva gli elementi base di questa tragedia ibseniana.
Si avverte subito infatti il senso di soffocamento (materiale e figurativo) che avvolge i protagonisti, provati da anni difficili, rapporti freddi, conflitti irrisolti, incapacità comunicativa e ossessioni folli.
Gabriele Lavia, Laura Marinoni, Federica Di Martino e Roberto Alinghieri esprimono al meglio la potenza dei caratteri principali che sono chiamati a rappresentare; i personaggi maschili di questo dramma grottesco sono potenti ed incrollabili nella loro coerenza: Borkman è un uomo che si autodefinisce eletto, dedito solo al profitto, alla rincorsa del progresso ed alla venerazione del denaro, trasposto magistralmente da Lavia in chiave amaramente ironica; Foldal è rinchiuso nel suo piccolo mondo poetico, nella convinzione sacra che da qualche parte la donna giusta esiste; le donne invece esprimono una netta superiorità spirituale: Grunhild ed Ella, sono pronte a sacrificare tutto per inseguire il proprio ideale, il “sogno” affettivo, la propria voglia di riscatto da una vita vissuta sotto una luce spenta, esprimendo con impeto la propria personalità.
In un dramma costruito su colpe da espiare e su desideri irrealizzati, è la caduta delle illusioni, l’impossibilità di essere altrimenti, a segnare la svolta sulla scena. I sogni rimangono sogni, il passato non viene riscattato (in particolare il peccato senza remissione per eccellenza, quello di uccidere la vita amorosa in un essere umano per un mero obiettivo venale); la presa di coscienza di Borkman si esprime nell’ultimo atto con una scenografia che riflette una natura partecipe dell’azione: una tempesta di neve avvolge l’ex banchiere, il freddo dell’anima gli attanaglia il cuore mentre volge con Ella lo sguardo sia ai paesaggi grandiosi e smisurati sui quali gli occhi non possono riposare, che ai ricordi di un passato ormai svanito: “Vedi la terra, come è libera ed aperta? Una volta vedevamo più lontano, vedevamo il paese dei sogni!”
La vocazione, la felicità, la volontà, l’amore ideale, la realtà vissuta dovrebbero permetterci di sfuggire al dubbio, suggerisce Ibsen. Ma noi non siamo i principali artefici del nostro destino, il nostro passato ci insegue: non ci si può sottrarre alla condizione umana che siamo costretti ad assumere. L’accettazione è la vera molla tragica di questo teatro, ed in questo dramma si deve accettare un’idea tanto antica quanto veritiera, come afferma il regista: “l’uono è crudele all’uomo, ovvero ogni essere umano è nemico di ogni altro essere umano” ed il conflitto è inevitabile.