Autori: Carlo Goldoni
Adattamento e drammaturgia di Francesco Niccolini
Regia: Paolo Valerio, Francesco Niccolini
Attori: Amanda Sandrelli, Alex Cendron, Giuliana Colzi, Andrea Costagli, Dimitri Frosali, Massimo Salvianti, Lucia Socci
Scene: Antonio Panzuto
Luci: Marco Messeri
Costumi: Giuliana Colzi
Produzione: Arca Azzurra Produzioni e Teatro Stabile di Verona
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Pièce tra le più riuscite e rappresentate della produzione goldoniana, La locandiera (1752) attribuisce un’inedita e dirompente centralità alla figura femminile, espressione dei valori borghesi di laboriosità e onestà (in contrapposizione alla decadenza aristocratica e in collaborazione con i ceti più umili) e di una nuova sensibilità psicologica più incline al confronto interpersonale, e alla crisi e arricchimento interiori. La modernità del capolavoro drammaturgico goldoniano risiede nella laicità di cui è permeata la dialettica tra i personaggi che passano attraverso processi di educazione e auto-educazione sociale e culturale in cui, alla fine, non ci sono né vincitori né vinti quanto piuttosto un auspicabile ammaestramento dall’esperienza. Il sottile gioco amoroso tra i due protagonisti, Mirandolina e il Cavaliere di Ripafratta, oltre a riflettere la prospettiva “empirico-sperimentale” dell’autore, adombra temi universali quali il rapporto tra i sessi, l’irrazionalità della passione, il principio del piacere e l’esercizio della finzione, che travalicano i pur essenziali riferimenti realistici settecenteschi nonché i collaudati schemi della convenzione comica che Goldoni eredita dalla Commedia dell’Arte, per proiettare quest’opera nella contemporaneità, dove, non a caso, ha goduto di innovativi e stimolanti allestimenti. La messinscena spartiacque, da questo punto di vista, è stata, nel 1952, quella di Luchino Visconti che ha definitivamente smantellato l’equivoco della tradizione interpretativa precedente, basata sull’artificio della leziosaggine e della frivolezza, restituendo ai conflitti sociali e psicologici sottesi alla drammaturgia goldoniana la crudezza del loro spessore drammatico.
E proprio nel solco di tale neo-tradizione viscontiana si pongono l’adattamento drammaturgico di Francesco Niccolini e la regia di quest’ultimo e di Paolo Valerio. Dal punto di vista linguistico il testo è stato aggiornato soprattutto nel lessico, vivacizzato dall’idioma toscano e da espressioni colorite e talvolta volgari, che hanno attenuato di molto il decoro della sincretica koiné goldoniana. L’ambientazione che l’autore aveva posto in Toscana per ampliare i confini della propria riforma teatrale al di fuori della Repubblica di Venezia ed esercitare più liberamente l’osservazione critica del ceto aristocratico, è stata resa più realistica con l’accortezza di distribuire tra i personaggi le varie aree di provenienza in modo da rappresentare la quasi totalità del territorio regionale: Mirandolina da Firenze, il cameriere Fabrizio da Tavarnelle, Il Conte di Ripafratta da Pisa, Il Marchese di Forlipopoli dall’Appennino tosco-romagnolo, il Conte di Albafiorita dalla Val d’Orcia, le attrici Ortensia, da Livorno, e Dejanira, da Grosseto. Più esplicito e a tratti aspro è diventato il confronto tra le classi sociali rappresentate dai personaggi: borghesia, aristocrazia e popolo minuto, senza dimenticare la categoria dei teatranti che in questa pièce non brilla di particolari virtù.
Ma, a mio avviso, la più rilevante novità di questa messinscena, nell’alveo del filone “realista” del secondo dopoguerra, risiede nello scavo psicologico dei personaggi, anche a scapito della più accessibile e redditizia comicità legata alla tipizzazione dei caratteri. Ciò è soprattutto vero per la relazione amorosa tra i due protagonisti che ha visto Mirandolina, artefice del gioco di seduzione, cadere vittima del proprio piano di vendetta, nel momento in cui realizza di aver maturato ella stessa un sentimento d’affetto nei confronti del Cavaliere e di doverci dolorosamente rinunciare non solo perché incapace di arginare le smanie da neo-innamorato dell’ex-misogino, rifugiandosi nel matrimonio con Fabrizio, già predeterminato dal volere paterno e dall’appartenenza di classe.
Su questa linea l’interpretazione degli attori è stata encomiabile. Amanda Sandrelli ed Alex Cendron hanno reso in modo convincente e palpabile la progressione emotivamente coinvolgente dell’atipica love story, sottesa alla raffinata e maliziosa sfida di seduzione-vendetta architettata dalla locandiera: dal timido dischiudersi del sentimento, all’esplosione della passione reciproca, fino alla tormentata separazione finale. Amalia Sandrelli è stata una locandiera sanguigna e sicura di sé nel suo spirito di indipendenza e operosità, e ha reso con accenti di verità e sobrietà la determinazione del carattere volitivo di Mirandolina, così come i temporanei sbandamenti dovuti ai turbamenti interiori.
Alex Cendron è stato un nobile dagli originari tratti distintivi di classe (educazione, sensibilità, fierezza, punto d’onore, ipocrisia ecc.), e ha penetrato l’intima e complessa natura del misogino, illuminando i passaggi dall’iniziale ritrosia, maschera della vulnerabilità, alla gioiosa scoperta del sentimento d’amore, fino all’amara disillusione finale.
Massimo Salvianti ha ben dosato, nell’interpretazione del cameriere Fabrizio, l’impulsività del popolano schietto e geloso, e la prudenza, frutto di buon senso e concretezza, premiate dalle nozze finali con la locandiera che lo decretano unico personaggio pienamente “vincente” della commedia.
Dimitri Frosali e Andrea Costagli hanno rappresentato lo stile di vita dissipato dei due aristocratici senza indulgere, come spesso accade nella tradizione interpretativa di questa coppia di personaggi, in effetti macchiettistici, e privilegiando invece la raffigurazione dell’identità sociale dello spiantato arricchito nel caso del Conte di Albafiorita, e del borioso squattrinato in quello del Marchese di Forlimpopoli; raffigurazione innervata di significative notazioni psicologiche: di scanzonato cinismo nel Conte e di accorato sentimentalismo nel Marchese.
Lucia Socci e Giuliana Colzi, negli sgargianti costumi di Ortensia e Dejanira, hanno reso efficacemente la frivolezza e il parassitismo delle due attrici travestite da dame, riuscendo al contempo ad evidenziare il fondo umano delle due avventuriere dilettanti, pronte a confessare a Mirandolina, in un moto di solidarietà femminile, la loro sprovvedutezza e spensieratezza.