Ci sono luoghi in cui il teatro non è solo una forma d’arte ma un modo di vivere, di sentire, di estrapolare bellezza come una ninfa vitale, in grado di rigenerarsi, di mutare, di evolversi. Uno di questi luoghi si trova in una piccola via del centro di Bologna e si chiama (S)blocco5. Dal 2013 la regista, attrice e presidente dell’associazione Yvonne Capece, ha eretto un piccolo tempio dell’arte che nel tempo è divenuto contenitore di luoghi, storie, emozioni.
L’ultimo spettacolo uscito da questo luogo di creatività è “La storia infinita”, lavoro frutto di un laboratorio di regia nel quale gli aspiranti registi si sono imbattuti nel capolavoro letterario di Michael Ende: un libro magico, mistico, indimenticabile. Un libro attraverso il quale il lettore è costretto a interrogarsi, a fare i conti con le paure, con il coraggio, con la pusillanimità, con la percezione di sé e tanto altro. Un libro che, pagina dopo pagina, si disintegra per poi ricomporsi in una forma sempre nuova, differente. Un romanzo che racconta in maniera esemplare il circolo infinito della creazione e della distruzione di un’opera d’arte.
A fare il resto ci hanno pensato i 7 allievi del corso di regia che, attraverso una staffetta artistica hanno dovuto distruggere il Nulla, questo enorme vuoto che tutto ingloba e hanno dovuto combattere con le armi della creazione, attraverso i suoi moti di trasformazione e negazione, per salvare il regno di “Fantàsia”.
La prima scena è opera di Martina Fidone. Lo spettacolo inizia con uno schermo bianco che abbaglia gli spettatori, il candore accecante diventa come una voragine, come il “Nulla” da cui si è attratti ma contro il quale si lotta. Tutti i registi entrano in scena, dentro questo grande buco nero. All’inizio sono persi, vagano nello spazio senza trovare una direzione, una meta. Poi pian piano cominciano a prendere forma dalla loro bocca delle parole e queste parole, ripetute come una sorta di mantra, diventano una guida e l’identità dei personaggi, ma anche dei registi, prende forma, così come prendono forma i ricordi che “anche se dimenticati, non ci dimenticano”. Martina ci conduce dentro i suoi ricordi attraverso un bellissimo siparietto nel quale tre attrici interpretano tre donne del sud che spiegano la ricetta del sugo in una parentesi ironica e nello stesso tempo romantica.
La seconda scena è diretta da Alice Amovilli: tutta la folla si è riunita nella Torre d’Avorio dove appare Cairone, l’uomo più saggio del regno, il quale annuncia che l’infanta imperatrice sta morendo e nessuno tranne Atreyu può salvarla. Per ottenere l’Auryn, il talismano del potere, il protagonista dovrà confrontarsi con Cairone che qui diventa il simbolo dei modelli familiari dai quali è necessario, per evolversi, prendere le distanze e separarsi: “Abbiamo tutti le nostre macchine del tempo. Alcune ci portano nel passato, e si chiamano Ricordi. Altre ci portano nel futuro, e si chiamano Sogni”.
Conclusasi la scena intimistica e malinconica si entra nel festino di Alice Gaglio, dove conosciamo La Morla, nei panni di una giostraia che manipola le persone e le sottomette facendole sprofondare nelle paludi della tristezza, proprio come accade ad Artax il cavallo di Atreyu, che perde le speranze e viene inghiottito dalle sabbie mobili. Il cavallo diventa il simbolo di chi rinuncia alla propria individualità per seguire la massa, per omologarsi e lasciarsi trascinare dalla corrente. In scena di cavalli ce ne sono diversi, tutti addomesticati dalla Morla che dà loro indicazioni su come comportarsi e degli “zuccherini” se fanno ciò che lei vuole, facendoli rinunciare a ogni presa di posizione a ogni anelito di coscienza. Tutti, tranne Atreyu, si tuffano in questo sinistro Luna Park di collodiana memoria per sollevarsi da qualsiasi responsabilità di scelta e azione, nel quale si rifugiano per non sentirsi responsabili di ciò che accade nel mondo e in se stessi.
Nel quarto frammento di Davide D’Ambrosio fa la sua apparizione il Fortundrago . è una scena all’insegna della leggerezza, nella quale Atreyu è pronto a fare l’eroe. Una scena immersa in un antico far west, ricca di citazioni, musiche e colori che immergono proprio in questo immaginario. La seconda parte dello spettacolo è composta dai tre atti finali diretti rispettivamente da Lino Bernardo Testa, Ignazio Vanfiori e Claudia de Benedittis che ci conducono in una dimensione più contemplativa e mistica. Atreyu intraprende il suo viaggio solitario verso le tre porte simbolo di altrettante sfide con alcuni aspetti dell’Io: la porta del Grande Enigma sorvegliata dalla sfinge rappresenta l’Io di fronte al mistero del Cosmo e all’indecifrabilità del destino. La porta dello Specchio Magico pone l’individuo di fronte a se stesso e infine c’è la Porta senza Chiave per superare la quale dovrà privarsi del desiderio di passare. Qui è il corpo il vero protagonista, perché l’incontro con se stessi è silenzioso e spirituale, la parola si fa canto e il corpo si fa gesto, azione, ripetizione, in una danza rituale che cerca nel gesto ripetuto la sintesi perfetta, come nella triadica “tesi, antitesi, sintesi” di hegeliana memoria. Il finale di questo lungo e avvincente racconto è dedicato a due grandi protagonisti del libro: Mork e l’Infanta Imperatrice. Il primo rappresenta l’ultimo ostacolo, il più temibile, “Il mostro dietro”. Entra Mork, il servo del Nulla, imprigionato da alcuni fantasmi, ma in realtà si scopre che gli schiavi sono proprio coloro che l’hanno incatenato, l’umanità che ha perso le speranze e i propri sogni. Parte dunque una feroce critica sociale in cui il neo regista Ignazio Vanfiori, a ritmo di musica techno manifesti mortuari e foto di famiglia non risparmia la coscienza di nessuno. l’unico modo per salvarsi da quest’abisso, dalla voragine che tutto divora è ricordarsi il proprio nome, pronunciarlo, ritrovarlo attraverso la lotta, l’identità, la forza. Dare vita alla voce ribelle, l’unica che può salvare il mondo dalla distruzione. E non solo Fantàsia. Nell’ultima scena ci troviamo davanti a un bellissimo monologo interpretato egregiamente dalla giovane attrice
Elisa Petrolino nei panni dell’Infanta Imperatrice che qui diventa una bambina ingabbiata in una casa di vetro nella quale gioca con il suo pupazzo Atreyu, svelando che il suo messaggio non è rivolto a lui. E in un incastro di scatole cinesi il gioco meta-letterario diventa meta-teatrale. Lei gioca con Atreyu, il suo pupazzo portandolo a compiere le azioni che desidera, ma lei stessa è un pupazzo nelle mani del regista e gioca nella scatola più grande che è la scena. Il fine ultimo di questo divertissement è attirare in quello spazio le emozioni, i desideri, le vite di qualcun altro e intrecciarle creare connessioni, incastri, alchimie.