Inizia dai titoli di coda dell’omonimo film del 1971 (quel La classe operaia va in paradiso diretto da Elio Petri e scritto con Ugo Pirro che trionfò al Festival di Cannes ma che suscitò in Italia pareri negativi) lo spettacolo omonimo adattato per il teatro da Paolo Di Paolo. Crudo e spietato nel rappresentare la condizione operaia dell’epoca, il film raggiunge i nostri schermi come un documento storico, prima ancora che come opera d’arte dal successo osteggiato.
La sceneggiatura del regista Di Paolo attinge tanto dal materiale del duo Petri-Pirro quanto dalla vicenda stessa dello sfortunato film: lo spettacolo ripercorre, con grande impatto di scena e recita, l’intera storia dell’industrializzazione e delle proteste operaie, senza ridurla al contesto italiano degli anni ‘70.
È una storia corale quella raccontata da operai di varia provenienza ed epoca, una storia che fa da sfondo alla vicenda di Lulù Massa (uno straordinario Lino Guanciale che riprende il ruolo di Gian Maria Volonté), una storia che evita l’ostacolo dell’anacronismo immancabilmente suscitato dalla rappresentazione di una rappresentazione di un’epoca (lo spettacolo liberamente tratto da un film liberamente ispirato alla storia vera degli operai). Di Paolo sceglie abilmente di portare in scena il backstage del film, inscenandone la genesi e mostrandone la fredda accoglienza del pubblico italiano: un film che non voleva essere politico, ma che ha finito con l’essere tacciato di mancata verosimiglianza con l’impianto politico di allora.
Trasposto sul palcoscenico, La classe operaia va in paradiso appare astratto, non più platealmente crudista ed esplicito nel dare forma ai disagi dei lavoratori, filtrato dall’interpretazione registica che ne rende l’immagine onirica, accompagnato da interventi di pianoforte, violino e chitarra, sovrastato dalle proiezioni del film e delle icone televisive dell’epoca e continuamente chiosato dagli stessi Elio Petri e Ugo Pirro, eletti a personaggi le cui incertezze in fase di produzione della pellicola costituiscono un elemento preminente della drammaturgia.
Se il film, oggi, ha il valore di un documento storico, la sua continua proiezione sopra il palco lo rende membrana temporale che illude gli spettatori della distanza epocale della finzione, rispetto alla loro realtà quotidiana. La classe operaia assume così lo stesso valore che avrebbe se riprodotto in TV, in DVD o in streaming; il mezzo teatrale aggiunge alla pellicola invariatamente riproducibile la propria finzione.
Non a caso ancor prima di cominciare lo spettacolo, a sipario aperto, invita a una riflessione circa la concretezza stessa della struttura sociale, immortalata da Petri su celluloide: con Paul Valéry, ci si può domandare se tutto il mondo sociale non sia frutto di una grandiosa finzione, un pretesto, una sceneggiatura scritta dai reggenti di un sistema economico-sociale che dagli anni ‘70 ad oggi non è mutato granché.
Certo, è cambiata la tecnologia, sono cambiati i nomi degli strumenti produttivi con cui il nuovo proletariato delle telecomunicazioni e del digitale deve interfacciarsi. Con questa consapevolezza, lo spettacolo di Paolo Di Paolo tramuta la vena politica affibbiata al film in un lungo sospiro per la condizione umana. Una riflessione forse anacronistica (questa sì), in tempi in cui la lotta sociale appare come una questione appartenente a un passato antico; tempi di pavida accettazione di una nuova forma di proletariato imposta dall’incertezza del futuro.
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La classe operaia va in paradiso
liberamente tratto dal film di Elio Petri (sceneggiatura di Elio Petri e Ugo Pirro)
regia di Paolo Di Paolo
con Donatella Allegro, Nicola Bortolotti, Michele Dell’Utri, Simone Francia, Lino Guanciale, Diana Manea, Eugenio Papalia, Franca Penone, Simone Tangolo, Filippo Zattini
regia Claudio Longhi
scene Guia Buzzi
costumi Gianluca Sbicca
luci Vincenzo Bonaffini
video Riccardo Frati
musiche e arrangiamenti Filippo Zattini
regista assistente Giacomo Pedini
produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione