Tre pièce, tredici attori, almeno quattro registri linguistici e drammatici. La Trilogia dopo Salò porta sulla scena la storia d’Italia dalla caduta di Mussolini all’avvento di Berlusconi in un’esigenza di sistematicità e di indagine enciclopedica sulla nostra storia contemporanea che, se non avesse trovato sfogo nel teatro, sarebbe sfociata in un saggio in tre volumi. Quasi cinquant’anni di fatti e di eventi condensati in tre performance, che la Compagnia Teatro popolare d’arte ha voluto proporre in una maratona al teatro di casa a Lastra a Signa come apertura di stagione. Una maratona, questo il termine più corretto sia perché, effettivamente, così si dice di ciò che a lungo si protrae e a lungo intrattiene sia perché, altrettanto effettivamente, la Trilogia impegna nel senso che implica fatica da parte degli attori e degli spettatori. I tredici attori rimangono sempre sulla scena e da un capitolo all’altro cambiano parte: uno sforzo mnemonico enorme, simile a quello dell’antico rapsodo, che portava da una polis all’altra la memoria di migliaia di versi epici; una vera e propria impresa artistica che mette in evidenza la capacità istrionica di ognuno di loro (Giusi Merli, Gianfranco Quero, Marco Natalucci, Rosanna Gentili, Roberto Caccavo, Gaia Nanni, Gianna Deidda, Rosaria Lo Russo, Isabella Giustina, Eleonora Venturi, Fausto Berti, Matteo Zoppi, Vincenzo Infantino) e che al secondo spettacolo si comunica allo spettatore come fatica fisica dell’attore. E poi l’impegno dello stesso spettatore, che per sette ore è seduto in platea ed è rapito da una girandola frenetica di suoni, colori, parole. È, infatti, il ritmo drammaturgico che più colpisce di questo spettacolo, ovvero l’utilizzo del tempo nel suo concetto filosofico-scientifico di relatività da parte dei drammaturghi (Massimo Sgorbani, Gianfranco Pedullà, Emanuela Critelli). Sette ore non sono poi così tante per cinquant’anni di storia, ma diventano tantissime se vengono proposte senza soluzione di continuità. La prima parte della Trilogia, “Arcitaliani”, dilatata due anni di storia (1943-1945) in due ore e mezzo di spettacolo. La seconda parte, “Mille brividi d’amore”, condensa invece un decennio – gli anni Sessanta – in un’ora di tempo in cui le musiche e i video dell’epoca (frammenti di vecchie pubblicità come Moplen o di telegiornali che documentarono lo sbarco sulla Luna; musiche, molte suonate dal vivo) hanno la meglio sulla parte performativa. Infine, l’ultima pièce “La scomparsa delle lucciole”, in cui tempo della storia e tempo della drammaturgia sembrano ricomporsi in un equilibrio sostanziale tra le parti con due ore e mezzo di spettacolo per l’indagine dei vent’anni che vanno dal 1970 al 1990. Un ventennio, dagli anni di Piombo all’avvento del berlusconismo, in cui si perviene ai toni della farsa. I linguaggi, l’altro elemento di spicco. Tanti linguaggi. In “Arcitaliani” c’è la rappresentazione tragicomica delle vicende casalinghe di una famiglia borghese che si avvicina alla tradizione del teatro dei Pupi: tutto è amplificato, dal tono della voce alle reazioni, dai colori alla stessa rappresentazione della tragedia o della commedia, e le marionette non mancano. Benito Mussolini e Claretta Petacci sono burattini nelle mani di commedianti di strada che hanno il compito di accompagnare lo spettatore dentro la storia (quale storia? La storia del Paese; la storia della famiglia; la storia del dittatore e della sua amante, che diventa quasi uno spin-off di Beautiful). In “Arcitaliani” c’è la lirica: il monologo del condannato a morte è un momento altissimo, che sa parlare della vita e della morte senza scadere nella retorica e nella poesia da quattro soldi. In “Mille brividi d’amore” tragedia e commedia si danno la mano in maniera sottile, senza trovare la sintesi nella tragicommedia. Tonino e Graziella, sposi novelli della piccola borghesia, rimangono nel limbo dell’irrealizzabilità. Non sono realizzati dal punto di vista professionale, non sono realizzati dal punto di vista familiare nei loro tentativi frustrati di avere un figlio, non si capisce bene “da che parte stanno” dal punto di vista politico. Il limbo in cui rimane sospesa una generazione che si confronta con quella precedente e che trova come unica espressione la violenza, incarnata dalla figura del terrorista poi assoluto protagonista del terzo capitolo, “La scomparsa delle lucciole”. In quest’ultimo si passa dalla narrazione sul palco dei drammi familiari (borghesi) di chi si è ritrovato un figlio brigatista ad una resurrezione che è poi il miracolo del teatro e del cinema della figura di Pier Paolo Pasolini, “colui che sa”. L’intellettuale contrapposto al politico, con cui si chiude la Trilogia in un ultimo guizzo linguistico. E l’ultimo registro non poteva che essere la farsa, per un dramma che aveva preso le mosse dai balletti e dai tamburi dei circensi.