Nonostante sia stata presentata in prima assoluta pochi giorni fa, al teatro alla Scala, questa Fin de partie è senza dubbio un’opera figlia del ‘900. Lo è l’autore dello spartito, György Kurtág, e lo è lo stesso Beckett, da cui è stato tratto il libretto, che non necessita certo di ulteriori introduzioni. Più che contemporanea, quindi, dovrebbe forse essere definita “moderna”.
Per quanto attualizzabile (o sempre attuale, si potrebbe dire), Beckettt è inevitabilmente figlio dei suoi giorni: Fin de partie è infatti andata in scena nel ’55, a Parigi, in lingua francese e – sebbene i suoi personaggi fluttuino in un luogo privo di spazio e tempo – appartiene inevitabilmente a quegli anni, a quel contesto, assieme a quelle avanguardie che, forse non a caso, hanno sempre snobbato l’opera, privilegiando altre forme espressive.
Sono questi due mondi che, dunque, non si erano mai incontrati prima di oggi, forse per incompatibilità evidenti, forse per una oggettiva difficoltà. Kurtàg, quindi, compie un salto mortale, restituendoci un lavoro certo ricco di ispirazione forse più “cervellotica” che genuina, ma di innegabile interesse intellettuale e artistico, sebbene davvero poco fruibile.
La costruzione dello spartito, che accompagna il libretto amplificandolo, e mantenendo un’aderenza stilistica impeccabile, ci è sembrata più vicina proprio a quell’idea di trans-avanguardia, che ad un momento di contemporaneità certo meno spigolosa.
C’è un forte situazionismo in Beckett, un situazionismo che si riflette anche nella destrutturazione della melodia, frammentata in un insieme di suoni costruiti magistralmente con assonanze e lunghe pause, i quali amplificano non tanto ciò che accade sul palco, ma piuttosto ciò che l’interiorità dei personaggi esprime.
Lo spartito abbandona qui completamente la narrazione e si fa intimo portavoce di una psicologia profonda, trasformando la lirica in angoscia esistenziale. Un insieme che potremmo definire disturbante, inquietante.
Il nonsense di Beckettt si tramuta quindi in un insieme di suoni e pause che sembrano un eco profondo proveniente dall’inconscio, in senso freudiano: una lunga caduta nelle angosce più profonde dell’essere umano, con un crescendo che dura due ore, impercettibile, ma potente.
Insomma, pensando ad un Beckett musicato non potremmo immaginare niente di diverso.
Viene da chiedersi però se tutto questo possa essere fruibile, per un tempo così lungo, da un pubblico in carne ed ossa. O forse se lo sarebbe dovuto chiedere l’autore il quale, al netto di quanto detto e dell’indubbio pregio artistico dell’opera, costringe gli spettatori ad una vera prova di forza.
Prova che in molti, evidentemente, non sono riusciti ad affrontare fino alla fine, con diverse defezioni da un teatro già semi-vuoto e con l’aggiunta di qualche nota di colore di fantozziana memoria urlata dal loggione.
Questo ci porta però ad una considerazione finale, fondamentale, una domanda che certo tutti gli appassionati si saranno posti: che cos’è il teatro dell’opera, oggi?
Non abbiamo certo la presunzione di rispondere a questa domanda qui. Ma un ringraziamento al sovrintendente Pereira, in questo caso, è dovuto.
Perché, nel bene e nel male, la ricerca della sperimentazione, della novità, del distacco dai canoni classici dell’opera, è forse l’unica cosa che può davvero tenere in vita questa arte che ai più sembra appartenere ormai ad un passato glorioso e in buona parte dimenticato.
La recensione si riferisce alla recita del 20 novembre 2018.