Quando ci si accinge a raccontare uno spettacolo come La bambina dei fiammiferi di Mario Fracassi si comprende subito di aver intrapreso un percorso complesso. In primo luogo perché si intravede immediatamente la difficoltà del tutto speciale che subentra quando la ricostruzione logica per mezzo delle parole deve misurarsi con la materia irriferibile dell’esperienza diretta; in secondo luogo perché alla difficoltà di carattere tecnico fa presto seguito una sensazione di pudore: non è facile, ma forse neanche giusto raccontare, come quando si ha premura di non rivelare i termini di un patto segreto. Intimo.
In questa condizione è allora il caso di affidare l’espressione alle ragioni di questa difficoltà e di questo pudore. Entrambe le reazioni riconducono d’altronde alla categoria di teatro sensoriale, che definisce sul piano stilistico La bambina dei fiammiferi; se normalmente a teatro si commentano i personaggi, il lavoro degli attori, le scene e le luci di un allestimento, qui il commento resta privo di ogni appiglio tradizionale, poiché lo spettatore assiste allo spettacolo con gli occhi coperti, opportunamente bendato al momento dell’ingresso. Conseguentemente, lo spettacolo si sviluppa sulla base di una percezione alternativa alla visibilità, strutturando forme diverse per il riconoscimento dei personaggi e per la fruizione di snodi e motivi caratteristici della storia. Ma se queste sono in fondo le regole del gioco sul terreno del teatro sensoriale, esse non garantiscono la riuscita dell’effetto; l’affabulazione richiede la gradazione di formule non scritte e non prescrivibili, che attengono alla sfera del “magico” o più precisamente a quella degli archetipi, per condurre lo spettatore oltre la mera condizione di novità e diversione. Qui interviene il passaggio specifico apportato dalla regia di Mario Fracassi e da un lavoro d’ensemble che coinvolge in scena un numero ampio di artisti; più che del numero è forse il caso di parlare di un “nuvolo” – tra voci recitanti, musicisti ed addetti agli effetti sensoriali – per meglio rendere la percezione di una presenza molteplice che resta celata dietro la cortina dell’invisibilità.
Questo punto apre al concetto di pudore, con la prova di talento che rinuncia alla dimostrazione di sé, spostando l’intera esperienza dello spettacolo al di qua della verifica visibile, che è poi il cardine del linguaggio teatrale ma più in generale dell’intera concezione dell’esistenza secondo i parametri occidentali. Per questo motivo il transfer che si attiva nello spettatore conduce verso un’esperienza tecnicamente “altra” rispetto ai confini mentali radicati culturalmente, pur rimanendo formalmente all’interno di elementi pertinenti alla nostra tradizione antropologica; così senza saccheggiare i rituali ed i codici di civiltà lontane è possibile attivare un viaggio sensoriale che non è fuga dal quotidiano ma sua espansione, oltre i limiti consueti del pensabile e del sensibile. Con una licenza terminologica, diremo che attraverso il percorso sensoriale de La bambina dei fiammiferi si riescono a cogliere i tratti zen nascosti tra le trame di una storia profondamente nordica e fondativa della cultura occidentale, quale è La piccola fiammiferaia di Andersen. La fiaba d’altronde costituisce un genere peculiare di creazione, più vicina alla cultura ancestrale che non al sistema formatosi in epoca moderna attorno alla sinergia di editoria e scuola. Trasformandosi in un prodotto letterario e pedagogico, la fiaba ha visto modificarsi il proprio linguaggio e le proprie forme all’insegna dei canoni politically correct e questa declinazione è avvenuta edulcorando un portato originario di contenuti sapienziali che racchiudeva una gamma completa di esperienze emotive. La storia della fiammiferaia di Andersen – che funge da punto di partenza per lo spettacolo di Fracassi – conteneva in soluzione esemplare i tratti chiaroscurali che contraddistinguono il genere fiabesco originario, spaziando dalla paura al tema della morte, senza riparare nel lieto fine che invece caratterizzerà il romanzo di formazione.
Al netto delle valutazioni di merito, per lo spettatore odierno un tale percorso potrebbe risultare non appagante senza appunto l’elaborazione di una riconversione sensoriale dei contenuti; in questo modo, con La bambina dei fiammiferi il genere della fiaba viene restituito alla sua ricchezza originaria, ma al contempo viene “formato” un pubblico nuovo, nel senso che viene predisposto un canale efficace per l’ascolto di un codice proveniente dalla cultura orale e che nel sistema sociale di origine riempiva una potenza immaginifica e sensoriale parificabile con ciò che oggi denominiamo “effetti speciali”. Questa coniugazione di antico ed attuale si traduce in termini di messinscena in un dilemma tra teatro ricco e teatro povero, subito disciolto a favore del canale più diretto ed immediato: il teatro riafferma sempre più la propria attualità come zona protetta dell’espressione semplice, sia come linguaggio artistico che come strumento pedagogico. Nel caso della fiammiferaia di Andersen, gli effetti spettacolari della fiaba sono posti fuori dalla sfera del visibile e dentro quella della visione, attraverso la capacità di proiezione esercitata dalla piccola protagonista su di una realtà fatta di indigenza, sfruttamento ed abbandono. La scelta di una messinscena “invisibile” non risulta dunque una invenzione manipolatoria – benché registicamente legittima – del nucleo originale, se non nel senso di una attualizzazione della fiaba entro i codici della percezione moderna, per raggiungere le soglie dell’immaginazione che in ogni epoca sopravvive vivida, sotto la spinta di necessari riposizionamenti. La “sostanza” di cui sono fatti i desideri sarà sempre e per definizione quella “di cui sono fatti i sogni”, ovvero la visione di una realtà diversa ottenuta tramite il sovvertimento di quella oggettiva, che si tratti di sogni vissuti ad occhi aperti o ad occhi chiusi. Ma in teatro questa capacità proiettiva e visionaria va percorsa necessariamente ad occhi chiusi, sovvertendo il canale fondante della comunicazione scenica che è quello della visibilità, linea di confine non solo spaziale tra i territori dell’attore e dello spettatore. Ecco perché ne La Bambina dei fiammiferi, oltre alla visibilità disattivata (ed attraverso di essa), la caratteristica principale dello spettacolo è rappresentata da una riscoperta contiguità personale ed umana tra ospiti ed ospitanti della scena, prima che spettatori ed attori. Ed ecco perché c’è spazio per il pudore, per via di una inedita intimità che si instaura già prima dello spettacolo con l’affidamento cieco agli accompagnatori che conducono per mano gli spettatori bendati verso le loro poltrone, e poi continua nel corso della performance, quando accompagnamento ed affidamento si trasmutano sul piano sensoriale e sinestetico; si avverte sulla propria pelle il soffio del freddo patito dalla bimba ma anche il calore irrorato dalla sua fantasia, dove si materializza una stufa immaginaria, quindi odori, sapori e voci di desideri bruciati al lume di fiammiferi caduchi, anch’essi tangibili. In quest’ottica, lo spettacolo sensoriale orchestrato da Mario Fracassi – pur coprendo formalmente gli occhi dello spettatore – espone sotto una lente di visibilità potenziata i meccanismi impliciti e microscopici della creazione teatrale: il significato delle parole del testo guadagna e diventa senso, passando attraverso la macchina volumetrica di una scena teatrale che rende percettibile persino l’esperienza di una visionarietà riscoperta nella sua funzione salvifica: è qui che avviene la sovversione dei limiti occidentali, passando attraverso il superamento di categorie effimere come normalità, successo o sconfitta, elidendo conseguentemente anche la formula manichea del lieto fine tradizionalmente inteso.
All’interno di un caleidoscopio di effetti coordinati con rigore costante, bisogna rendere nota delle bellissime musiche e canzoni composte da Paolo Capodacqua, tramite cui trova compimento il coinvolgimento emotivo del pubblico, accanto ad una polifonia di voci provenienti da diverse direzioni ed articolate su più livelli formali anche nei frangenti non musicali.
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CREDITS:
“LA BAMBINA DEI FIAMMIFERI”
con Santo Cicco, Laura Tiberi, Martina Di Genova, Roberto Mascioletti, Antonella Di Camillo, Eleonora Cipolloni, Enrico Di Giambattista, Fiorenza Matarazzi e la partecipazione della piccola Giorgia
musiche e canzoni di Paolo Capodacqua, eseguite dal vivo da Germana Rossi
ideazione e regia Mario Fracassi
Compagnia TSA-Teatro Stabile d’Abruzzo
Florian – OIKOS Residenza per Artisti