Sempre contro. Anzi, sempre “anti”. Parliamo di Flavio Sciolè – performer, regista, autore – anche se per correttezza filologica dovremmo far precedere ogni definizione dal prefisso anti –, per l’appunto.
L’unica categoria che lui con ogni probabilità accetterebbe di abitare senza bisogno di inversioni o sovversioni nominali è quella della poesia, la forma di creazione che Sciolè ha conosciuto per prima ed in cui forse è coagulato dentro una forma plastica quell’istinto di difesa dall’approssimazione che respira dietro la provocatorietà del suo anti-stile. E proprio oscillando lungo la linea del sospetto tra provocazione ed esigenza artistica, l’enigma Sciolè ha percorso un quarto di secolo senza permettere l’approdo ad una soluzione, ri-declinandosi con incedere alchemico nei linguaggi del teatro, della video-arte, dell’istallazione, della scrittura, pur mantenendosi sempre fortemente “altro”: anti-attore lui, anti-drammaturgia la sua produzione teatrale, anti-film i suoi corto e mediometraggi.
Fa dunque notizia, per tutta una serie di motivi, l’uscita del volume “Libero Teatro in Libero Stato”, pubblicato da Holy Edit e da poco disponibile anche in formato e-book, in cui Sciolè racchiude il nucleo fondamentale della sua produzione teatrale. Undici testi (anti-testi, pardon!) in cui si dispiega la parabola del “Teatro Ateo” di Flavio Sciolè, da “CERCHI” del 1993 ad “ICARO CARO d’oro cosparso” del 2008, ovvero dai primi tentativi di drammatizzazione al compimento maturo del concetto di anti-spettacolo. Qui l’idea del libro mostra la sua funzionalità piena: sulla pagina, tramite l’inequivocabile resa di inchiostro su carta, di parole e frasi fermate nella loro veste visibile, appare palese la trasformazione della scrittura di Sciolè, oltre che la natura della sua trasformazione. Appare palese il passaggio da una vocalità ancora debitrice del verso poetico ad una parola impastata con il corpo dell’azione scenica, anche laddove questa cerchi pervicacemente la stasi, quando non il martirio, la flagellazione, la soppressione del corpo medesimo.
Si tratta di un passaggio brusco, un salto netto tra due modalità drammaturgiche eterogenee, che tuttavia irradiano attrazione per via della loro consanguineità. Scorrendo le pagine del libro, si attraversa una vera e propria cesura tra due diversi territori letterari (e due dimensioni temporali), che si intrecciano in un punto ben preciso e si travasano l’uno nell’altro. Un solco, un confine, uno snodo. Il “checkpoint” del teatro di Flavio Sciolè è rappresentato da Psicosi Atea del 1998: il primo vero anti-spettacolo, l’abbandono definitivo del circuito ufficiale, l’approdo sul suolo romano… Tutto vero, ma anche una nuova struttura testuale, che da allora si manterrà stabile nel suo formato di progetto performativo, di planimetria tecnica per lo sviluppo dell’evento futuro. Subentra da questo punto in poi una ocularità ed un senso tattile dello spazio verso cui le battute protendono. Queste vengono costantemente introdotte da lunghe didascalie non meno importanti sul piano poetico, dato che vengono a comporre per lenta stratificazione il quadro di una vera e propria estetica teatrale, per quanto essa ambisca allo statuto di anti-estetica.
Sono presenze che ricorrono disordinatamente, assumendo però una funzione partecipativa alla stregua dei personaggi, questi ultimi ora più numerosi e più connotati: è scomparsa la geometrica perfezione della dualità dolente e sospesa che riempiva i testi precedenti, cellula minima entro cui ridurre massimamente una drammaturgia “sacrificale”, fatta per scarnificare, rovesciare, rinnegare il teatro. Ma Sciolè ambiva a dissacrare il teatro; non solo il suo accademismo, bensì tutto quanto trae accidentalmente linfa dalla sua aura sacrale: il turgore culturale, la sua classicità intrinseca ad onta di ogni avanguardismo, il suo essere irrimediabilmente evento pubblico e dunque luogo di unione, occasione di conciliazione o – quel che è peggio – della sua illusione.
Bisognava dunque imbastire una cerimonia, anzi allestirla con puntiglio munifico, svuotando allo stesso tempo ogni minimo paramento di ogni minima radiosità. Ecco dunque l’armamentario tipico, identificativo del “Teatro Ateo”: i guanti di gomma, gli apparecchi telefonici obsoleti, le grucce per abiti, e poi i fili, i cavi, le corde, i nastri segnaletici in plastica, ovvero tutto ciò che può alludere o servire a sospendere in aria il proprio corpo (“l’autolesionismo è un mio diritto”, come recita l’incipit di Icaro Caro), per non parlare dell’uso basico ed ossessivo del colore. Desacralizzare non è un’azione, e non è un gesto. È un atto, e necessita i suoi riti, dunque anche i suoi strumenti, i suoi simboli, le sue icone.
Varcato il suo “checkpoint”, la scrittura di Sciolè si carica di una multi-sensorialità che viene messa metodicamente a servizio dell’abbandono: abbandono del senso, quale meta dittatoriale di ogni segno ed ogni prodotto umano. Mentre i personaggi si inspessiscono nelle forme di sculture iconiche ed iconoclastiche, la parola si frastaglia nell’atto di dire (la mitica tecnica dell’inceppatura), mescolandosi talvolta alla musicalità leggera di successi pop dimenticati o troppo meccanicamente memorizzati, in ogni caso sbiaditi dal tempo storicamente irrilevante delle decadi. Sulla materia adamitica della pagina, la scrittura sembra reclamare la sua presenza estetica: oltre all’alternanza di maiuscole, minuscole e stilemi, si inseguono i diversi font a designare le modulazioni di tono richieste dalle diverse battute. L’occhio è solleticato dalla deformazione morbida della parola, all’interno di un quadro complessivo che sostiene il suo incedere mentre costruisce progressivamente la propria dissoluzione. O meglio, la propria dissolvenza: il prestito dal gergo cinematografico non è forzato, e non solo in virtù della lunga frequentazione della video-arte da parte di Sciolè.
Il testo teatrale si discioglie nelle forme fluide della scrittura scenica, aprendo a diverse ipotesi di resa, come un “ipertesto” disponibile a molteplici soluzioni. Si tratta di un universale che in teatro vale sempre, ancor più negli ambiti alquanto liquidi della performance, a maggior ragione nella dimensione dell’anti-teatro: qui diventa anzi una componente fondativa che nel testo prende forma, come avviene con evidenza massima nella pièce “Calvario Room” (2002). Tramite l’immaterialità ubiquitaria della video-arte, Sciolè realizza forse nella sua forma più olimpica quell’ambizione al superamento della condizione fisica che percorre sottotraccia anche il suo anti-teatro. Tuttavia – in forza di contrappassi perfettamente logici in termini artistici – è proprio nella condizione fisica, corporea e sensoriale del teatro che l’anti-poetica di Sciolè guadagna i gradi di una dimensione dialettica. Ed in questo gioco di paradossi, il format del libro – con la sua sostanza tutta verbale – completa il percorso di una scalata à rebours, di una vertigine, di una caduta volontaria, secondo un’immagine che ritorna nella grafica rovesciata presente in copertina.
Il volume – introdotto dalla formidabile prefazione di Graziano Graziani – è completato da una sezione conclusiva che raccoglie gli scritti teorici e programmatici del Teatro Ateo di Flavio Sciolè. Si spazia dai cosiddetti Non-Manifesti, dove l’artista presenta i principi fondativi della sua estetica (la recitazione inceppata, l’uso del colore, il simbolismo degli oggetti, i gesti…) alle schede delle singole performance (o dis-messe in scena) che fotografano in divenire i diversi stadi di un percorso iniziato venticinque anni orsono.
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CREDITS:
TITOLO: Libero Teatro in Libero Stato
SOTTOTITOLO: Disopere antiteatrali intorno a Teatro Ateo
GENERE: Libro (Teatro)
AUTORE: Flavio Sciolè
EDITORE: Holy Edit
PAGINE: 128
LINGUA: Italiano
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CARATTERISTICHE:
Copertina Rigida
Pagine 128
Disponibile anche in formato e-book
Contenuti Extra: (esclusivamente in e-book) Locandine degli spettacoli, più una pièce