Massimo Acciai Baggiani, fiorentino classe ’75, scrittore poliedrico, uomo di cultura in un senso ampio e radicale, conoscitore di più lingue dal respiro universale, si è interessato molto presto al genere narrativo fantascientifico e fantastico, scrivendo e pubblicando brevi racconti su riviste in italiano e in Esperanto, la sua seconda se non prima lingua, classificandosi in vari concorsi letterari. Tra la sua produzione scritta si conta anche poesia, saggi e un romanzo fantasy inedito, anche se trova la sua dimensione ideale nei racconti. Ha svolto attività di grafico e impaginatore, redattore di Nova Sento, organo della IEJ (Gioventù Esperantista Italiana) e coredattore de “L’esperanto”, organo della FEI (Federazione Esperantista Italiana). Attivista all’interno del movimento esperantista, consigliere della IEJ. Ha curato l’“Antologia dei Segreti di Pulcinella”, edita da Giulio Perrone Editore. Non resta che conoscere questo scrittore, poeta, saggista, esperantista, direttamente ascoltando le sue parole, in qualsiasi linguaggio vorrà rispondere.
Massimo, esperanto e italiano, due lingue che costruiscono la tua identità di scrittore ma anche di persona. Cosa ti lega all’una e cosa all’altra? Come hai scoperto l’esperanto?
Parlare due lingue equivale, come ha detto qualcuno, a vivere due vite. Ciò vale anche nella scrittura: quando scrivo in esperanto sono in un certo senso uno scrittore diverso rispetto a quando scrivo in italiano. È inevitabile: una lingua porta dietro con sé tutto un mondo, una mentalità. Sentii parlare di esperanto durante i miei studi universitari da un professore che lo denigrava in base ai pregiudizi soliti che ruotano attorno alla lingua universale: la cosa anziché allontanarmi mi incuriosì, così decisi di approfondire l’argomento. Feci un corso tramite internet, poi incontrai dal vivo gli esperantisti, partecipai a congressi e festival, eccetera. L’esperanto non è solo una lingua: è un ideale. Un ideale di pace, fratellanza tra i popoli (pur nel rispetto dell’identità di ciascuno), e amicizia; tutti valori in cui credo profondamente.
Il tuo interesse per la cultura è trasversale anche per quanto riguarda la scrittura e i generi letterari. Poesia, saggistica, racconti, narrativa, etc. Ci vuoi parlare di questo?
Mi sono considerato sempre più un narratore che un poeta, anche se la poesia viene prima cronologicamente: ho iniziato alle elementari insieme a due miei compagni a scrivere filastrocche. Per quanto riguarda la narrativa mi sono orientato soprattutto verso il genere fantastico (fantascienza, fantasy, horror…) ma ho anche pubblicato un paio di raccolte di racconti “realistici” (“normali”, come direbbe la mia vicina). Per quanto riguarda invece la saggistica ho trattato temi a me cari quali la letteratura, la comunicazione e le lingue (in particolare le lingue artificiali, quindi non solo l’esperanto).
I tuoi ultimi lavori sono una raccolta di racconti di fantascienza “La compagnia dei viaggiatori del tempo” e “Radici”, un saggio sul Mugello. Ce ne vuoi parlare?
Il primo è una sorta di Decamerone fantascientifico: dodici amici scrittori si riuniscono periodicamente per raccontarsi due storie a testa sul tema del tempo, della vita, della morte e dell’utopia. Uno di loro si incarica di trascriverli. Si tratta di una scelta di racconti scritti in diversi anni; ne è nato una sorta di ibrido tra il romanzo e la raccolta di racconti, edito da ABEditore nel 2017. Uno dei libri a cui sono più affezionato, subito dopo “Radici” che, come hai detto, parla del Mugello, tra narrativa e saggio: un viaggio alla scoperta del passato della famiglia di mia madre, in memoria della quale ho aggiunto il suo cognome al mio. Il libro è nato da una collaborazione tra me, mio cugino Pino e il mio amico fotografo Italo Magnelli: insieme siamo andati varie volte in questa terra ingiustamente dimenticata, ricca di storia e tradizioni.
Quali sono gli altri libri che hai pubblicato? Qualche riconoscimento di cui vai fiero?
Al momento ho all’attivo 18 pubblicazioni in volume, contando anche quelle in collaborazione con altri autori. Tra i vari riconoscimenti quello che ricordo con più affetto fu il primo posto che mi fu assegnato alla terza edizione del Premio Stratagemma, nel 1999, per il racconto “L’equilibrista”: era il primo riconoscimento che ricevevo, del tutto a sorpresa, durante la cerimonia di premiazione nell’omonimo negozio nel centro di Firenze.
So anche che hai creato una tua lingua e che hai tenuto a questo proposito una lezione all’Università. Raccontaci un po’.
Si tratta della Lingua Indaco, una lingua letteraria creata nel 2015 e usata per scrivere alcune poesie d’amore ad una ragazza che avevo conosciuto in Lituania. Nella finzione letteraria si tratta del fiorentino dell’anno 5000. Ne ho tratteggiato la grammatica ed un piccolo dizionario nel mio libro sulle lingue inventate, “Ghimile ghimilama” (in titolo è appunto in Lingua Indaco e significa “Un giorno o l’altro”). Il mio tentativo glottoteta ha attirato l’attenzione del professore Davide Astori, docente di linguistica generale all’Università di Parma, il quale mi ha invitato a parlare davanti ai suoi allievi nel novembre 2016. È stata una bella esperienza; una studentessa ha addirittura definito “sublime” il fatto che avessi dedicato ad una ragazza una lingua inventata.
Quale rapporto hai con la città nella quale vivi, Firenze?
Un rapporto di “amodio” (amore + odio). È la città dove sono nato, dove ho trascorso tutta la mia vita (a parte i miei viaggi comunque brevi anche se numerosi), dove risiede la maggior parte dei miei amici, dove si appuntano i miei ricordi, dove sono ambientate per la maggior parte le mie memorie e spesso i miei racconti e romanzi. A parte la fama e la grandezza di Firenze, di cui godono soprattutto i turisti, ci sono tanti aspetti della mia città che non mi piacciono: il traffico, la scarsità di parcheggi, il caos nel centro, le periferie degradate, i mezzi pubblici che fanno pena, la difficoltà a muoversi e a viverla pienamente.
Cosa pensi della collaborazione e della condivisione tra artisti e poeti?
È sicuramente una cosa positiva quando due sensibilità affini si incontrano e collaborano: io ho scritto diversi libri, racconti e poesie in collaborazione con altri. Penso che gli artisti dovrebbero aiutarsi a vicenda e non ostacolarsi, farsi concorrenza, invidiarsi. Ma forse la mia è una visione utopica…
Parlando della tua poesia ricordi un tuo verso a memoria? Anche in esperanto se vuoi, con traduzione se possibile.
Curiosamente invece mi viene in spagnolo, lingua in cui composi una poesia mentre mi trovavo a Barcellona per studio, nell’estate del ‘99. Il verso che chiude la poesia è il seguente: “El corazon vuelve a una costumbre que puedes llamar nostalgia” (ossia “Il cuore torna a un’abitudine che puoi chiamare nostalgia”). Ero seduto di notte sulla spiaggia ad ascoltare la risacca.
Chi sono i tuoi riferimenti letterari?
Sicuramente gli autori classici della fantascienza e del fantastico, sia italiani che stranieri (Wells, Asimov, Verne, Calvino, Buzzati, Poe, Lovecraft, Ende ecc.), ma anche i classici “mainstream” e i moderni (pochi questi perché ho notato una sorta di appiattimento e banalizzazione nella letteratura contemporanea).
Qual è il tuo rapporto con il teatro?
Mi piace andare a teatro, ultimamente ci vado spesso seguendo la stagione del Teatro di Rifredi, sui cui spettacoli scrivo puntualmente articoli. Prima frequentavo il teatro parrocchiale di Montughi, dove davano ogni settimana una commedia in vernacolo. In seguito ho scritto io stesso una commedia, a quattro mani con Emma Ronchetti, ancora inedita e mai rappresentata: “Krob”. Il bizzarro protagonista parla per l’appunto in esperanto e nessuno lo capisce!
Quali sono i tuoi progetti futuri?
Ho diversi libri nel cassetto, conto di pubblicarli: un paio di romanzi di fantascienza intitolati rispettivamente “Oltre le bianche distese del tempo” e “La straordinaria nevicata dell’85”, un altro romanzo di fantascienza a cui sto lavorando ed una raccolta di saggi e recensioni letterarie. Ho intenzione di scrivere anche libri nuovi, tra cui il secondo della trilogia iniziata con “Radici”, ossia un libro sul Casentino (terra di origine di mio padre), e magari un libro di fiabe per mio nipote Manuel.
Massimo Acciai Baggiani è un conoscitore di più lingue dal respiro universale.