Una valanga di formule matematiche proiettate sul palco invade la platea, incombendo sopra la scenografia, immane memento della minaccia astratta che gli studi sulla fissione nucleare avrebbero mantenuto per i giorni a venire.
La Copenaghen che è stata teatro dell’incontro tra Niels Bohr (Umberto Orsini) e Werner Karl Heisenberg (Massimo Popolizio) si staglia sullo sfondo delle vertiginose gradinate di un’aula universitaria. La “Venezia nordica” diventa quindi il simbolo astratto stesso di quella minaccia, lo spauracchio della seconda metà del XX secolo, il pretesto per una guerra fredda.
Alla storia conosciuta, il testo di Micheal Frayn aggiunge l’elemento della vicenda personale di due tra i fisici più importanti dello scorso secolo, il cui incontro intimo e familiare rappresenta un dietro le quinte ideale delle tragedie storiche avvenute o fortunatamente sfatate. Nell’interpretazione registica di Mauro Avogadro, il confronto tra Heisenberg (suo malgrado capo del programma nucleare nazista) e il maestro Niels Bohr (consulente del Progetto Manhattan di discendenza ebrea) dipana il riferimento storico intorno al 1945, fatidico anno zero della bomba che distrusse Hiroshima, mostrandone antefatti, conseguenze e timori.
Amici di vecchia data ma esponenti di fazioni opposte, i due fisici traducono le opinioni personali sui fatti di Hiroshima in calunnie e ammissioni di colpa, nel sottile gioco delle parti cui la moglie di Bohr, Margrethe (Giuliana Lojodice), riveste il ruolo di giudice e arbitro.
La lucidità a stento mantenuta dalla donna costituirà la chiave per la soluzione della tensione drammatica: se la guerra non fa vincitori né vinti, non sono Bohr né Heisenberg a poterne trarre benefici. Entrambi, dalla loro cauta posizione di regia lontano dal palcoscenico della distruzione, devono espiare le proprie colpe: il primo, per aver partecipato alla creazione della bomba; il secondo, per non aver potuto o voluto contribuire allo sviluppo della ricerca atomica nazista.
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Copenaghen