Al Teatro degli Eroi di Roma dal 22 al 25 novembre e il 2 dicembre va in scena ‘Noi due’, monologo a più voci tratto dal libro di Paola Nicoletti ‘Raccontami il mare che hai dentro’ che affronta il tema dell’autismo senza riserve, in modo diretto, privo di enfasi, assolutamente singolare. È una storia d’amore primordiale, suggestiva e travolgente, senza pause né imbarazzi, al di là di ogni convenzione, tra una mamma atterrita e premurosa, stoica e determinata, ed un figlio speciale, indifeso, delicato e prezioso, che contraccambia quel sentimento in modo istintivo, in quel solo modo che non deve essere inculcato per sembrare appropriato. L’autrice, madre di Gabriele, prescelta da un’inopinata sorte, è chiamata a testimoniare il trauma di un luminoso insulto che ha attraversato la sua giovane esistenza. Lo descrive con la sapienza appassionata e l’audace ironia di chi, dal dolore, ha maturato una consapevolezza e un equilibrio inespugnabili. La trasposizione teatrale di un’opera letteraria densa di aneddoti privati e intime riflessioni è comunque impresa ardita e non sempre ugualmente efficace per evidenti limiti di rappresentazione che rischiano di banalizzarne la natura e di indurre in tentazioni estreme. Nel caso di Paola Nicoletti è dapprima un atto dovuto, un urto frontale che investe le labili certezze di ognuno di noi, sovente indolenti, indifferenti alla sofferenza altrui, e scuote gli spettatori di professione che si voltano di lato per abitudine, per mantenere salde le loro griglie di pensiero. Nel viaggio all’interno della memoria l’autrice si riappropria del tempo appreso, reso ormai virtuale e che per questo rasserena; lo rinnova, lo rigenera con vigore ed umiltà, e traccia la strada. In ‘Noi due’ la sceneggiatura acquista una sua autentica necessità nel farsi linguaggio, la parola assume in scena una forza dirompente, asseconda ogni gestualità, riempie ogni vibrazione, ogni suono, è simbolo, rivelazione, invocazione, furore, promessa, in un catartico intreccio fra comunicazione e comunione col pubblico. È la magia del teatro di parola. È l’Incanto di Natale’ che si perpetua. Le due formidabili protagoniste sono Daniela Rosci e Lorenza Guerrieri, figure indomite di madri coraggio. L’altra interprete è Anna Maria Achilli nel ruolo della Coscienza che sovverte propositi senza dirimere contrasti e, abile nel confondere ancor più le idee a chi deve risolvere all’istante soluzioni ineludibili, emette giudizi tanto severi quanto scontati e intercambiabili. Si avverte una qualche forzatura, come di sovrapposizione esterna al dramma che, pur nell’intenzione di infondere una vena di ironia e leggerezza alla rappresentazione, sottrae pathos e nuoce in parte alla fluidità dell’eloquio. Vera Beth introduce le sequenze con frammenti di poesia dell’anima; Saverio Santangelo è lo spirito danzante e inquieto dell’autentico protagonista della pièce, il tenero Gabriele. La regia è di Pier Luigi Nicoletti. L’incipit scandisce il senso del dramma. I dubbi lancinanti di una madre che deve scontrarsi con i propri limiti sensoriali e con l’inadeguatezza di una fragile e altera resilienza che non vuole soccombere, troveranno conforto nell’inevitabile accettazione del dolore e nel richiamo del cuore. La scena è come deve essere, spoglia, essenziale; gli unici arredi sono pannelli schermati disposti frontalmente e disallineati, a rappresentare una vita ad ostacoli e l’impossibilità di scrutare oltre il buio di una assenza apparente, di comunicare e comprendere bisogni e sensazioni nel fondo di uno sguardo attonito. Affetta da una cataratta irreversibile che offusca le proprie certezze e preclude ogni nitida prospettiva, la mente di Paola si smarrisce; le domande sono inghiottite dalle profondità inaccessibili di un oceano sconosciuto in attesa di risposte, per essere infine nutrite dall’acqua limpida e pura di un amore sconfinato. L’attesa di un figlio maschio che farà compagnia a Giorgia e Marzia non è in programma, e, dopo un comprensibile disorientamento, la scoperta inonda di gioia la trepidante carovana. La voce fuori scena evocata dalla Coscienza fa da controcanto del dramma che sta per dischiudersi e, mettendo in guardia da ingiustificato entusiasmo, è voce di augure, vaticinio di sciagura. Non può far notizia la solitudine di una madre che lavora e non può consentirsi alcuna tregua ma deve contare sulle sue sole forze. I preparativi, il corredino, le apprensioni che precorrono il parto, e poi finalmente arriva Gabriele, un bel bimbo vivace che cresce in fretta. Il primo anno trascorre privo di particolari sussulti ma ben presto segnali di allarme interrompono la festa. Gabriele non risponde agli stimoli, non ripete i versi degli animali. Potrebbe essere un banale problema di udito, ma un otorino di fama scovato ai Parioli, dietro cospicuo tornaconto, escluderà l’eventualità. Peccato che i solerti genitori del piccolo avrebbero ottenuto il medesimo responso poche ore dopo, e senza colpo ferire, osservando la sua reazione incuriosita mentre un aereo sorvolava le loro teste a Villa Pamphili. Così come, dopo vani tentativi di ottenere la sua attenzione chiamandolo per nome, avrebbero capito per caso che Gabriele non ne voleva proprio sapere e avrebbe mostrato interesse al suo equivalente ipocoristico: Lillo. Ma la sentenza che avrebbe messo fine a tanti dubbi significativi sarebbe arrivata dal neuropsichiatra e non avrebbe dato scampo, agghiacciante nella diagnosi e nelle forme di esternazione. L’incredulità e il rifiuto sono i primi effetti della disperazione e della non conoscenza. Ma se la paura è fatta di niente, come recita un vecchio adagio di casa Nicoletti, non ha senso averne paura. Se poi teorie anacronistiche sproloquiano di anaffettive mamme frigorifero e hanno l’autorevolezza degli epigoni di Bruno Bettelheim, allora il fai da te nel trattamento è più di una risorsa, è un valore aggiunto da riconsiderare. La Coscienza imperversa e non fa sconti alle paure, respingendo proposte ritenute irricevibili, azzardate, dagli inevitabili effetti collaterali. Le paure non si contano. La paura di perdere il proprio figlio in spiaggia, la paura di lasciarlo davanti a scuola, di pensarlo esposto al becero ludibrio o semplicemente ai pericoli, perché ‘non c’è vittima migliore di chi non sa dire il suo nome, di chi non sa parlare né raccontare’. L’attesa quotidiana del pullmino giallo del Comune che porta Lillo a scuola è una gemma di intenso lirismo e inconsolata solitudine. La fierezza di una madre che si abbandona al pianto lontano da sguardi indiscreti e trattiene le lacrime che si fissano in un malinconico sorriso è commovente elegia allo stato puro. I genitori di persone autistiche sono ‘costretti a fare un atto di fede’ quando il proprio cucciolo viene affidato ad altri, perché l’unica certezza è che gli angeli esistono e hanno volti che col tempo assumono un aspetto familiare e non puoi più farne a meno perché questa battaglia si combatte e si può vincere insieme a loro. Parliamo di insegnanti, medici, terapisti, compagni di classe, assistenti, collaboratori familiari, a cui si aggiungono gli angeli per caso. L’accettazione del fenomeno si insinua, mentre i multiformi scenari si amplificano imprevedibili, ma il mostro è accerchiato. La consapevolezza lievita mentre cresce l’amore, perché si amano i figli della violenza e della droga. I figli si amano tutti e ancor più se hanno disagi e problemi importanti. Le madri hanno un rapporto viscerale con l’essere che hanno portato in grembo prima di dargli luce propria. E i padri? Implodono all’istante e vanno prima rianimati. Il loro è il contributo delle seconde file, coprono le spalle in termini di conforto umano e discutibile consulenza. Dalla retroguardia offrono comunque un supporto logistico, sono anche apprezzabili rifinitori, esprimendo il meglio di sé nel secondo tempo. Nonostante i periodi tremendi fra manie e fobie di ogni specie, dalla fissa del grigio al periodo naturalistico contraddistinto dal rifiuto di indossare alcun indumento, alla selezione dei cibi in base ai colori, agli incubi notturni dovuti ad un fuso orario tutto suo. Paola e Umberto, da genitori giudiziosi, riescono a controllare il fuori controllo. E poi c’è l’attrazione fatale, la vera e propria madre di tutte le manie, ancora in auge, quella per il mondo incantato e le musiche di Walt Disney. C’è una bollente linea rossa, disturbata per la distanza siderale, fra Paola e lo spirito del defunto Walt. Lo scambio è a senso unico ma la telefonata è rispettosa, confidenziale e in vena di ringraziamenti sperticati. La richiesta è accorata e il senso è: ‘Come mai ragazzi indifferenti alle cose del mondo, che non hanno nessuna voglia di relazionarsi e non provano alcun interesse per ciò che li circonda, restano letteralmente rapiti dalle sue creazioni? Cosa c’è in quelle illustrazioni, nei colori, nelle musiche, ad attrarli così tanto? Per le cose del mondo, quelle vere, reali, non funziona! Quale messaggio subliminale sconosciuto è in grado di abbattere le barriere dell’autismo?’ La risposta è insita nella domanda e Paola la conosce bene. The answer, my friend, is in your cartoons, Mr. Disney. Il mondo delle fiabe è popolato di creature immaginarie. A differenza del mondo esterno, non è necessario relazionarsi con i personaggi fantastici. Generati appunto dalla fantasia, il loro volo non ha ostacoli, come libera è la musica che tocca le corde di ogni cuore semplice. Il commiato è ispirato e percorso da un fremito: ‘Grazie Mr. Disney, perché senza le sue favole e senza Pinocchio, Lillo non avrebbe avuto amici’. L’episodio di Winnie the Pooh merita la lode per gli sviluppi grotteschi che offre e per come è rappresentato, tra follia involontaria e sfinimento liberatorio, e alla fine dell’incubo madre e figlio seduti su di una panchina, imbrattati di gelato, mano nella mano, per sempre. È la quintessenza surreale di fenomeni che vorremmo per sempre banditi dalle nostre città, dei pregiudizi, dell’ipocrita indifferenza, dell’imbarazzante arretratezza culturale e dell’indolenza ad accettare regole comuni condivise. Andare a scuola di autismo non è impresa semplice perché ogni materia non è mai una scienza esatta, le variabili sono pressoché infinite e ogni situazione non si ripete con le stesse modalità e non è applicabile a tutti. Gli stregoni vanno presi a piccole dosi. Ogni consiglio è utile, ma va adattato al bisogno, configurato al momento, in un sottile gioco di equilibri, evitando di snaturare se stessi. L’esperienza personale comunque fa sempre la differenza, anche se il rischio è di apparire inadeguata o, peggio, di sentirsi una cattiva madre. Cattivo è il mostro che prende il sopravvento sull’innocenza per esplodere in furore innaturale, disumano, che trasfigura l’essere, e, dopo la tempesta subdola e inarrestabile, solo il vigoroso abbraccio materno che assorbe tanta immotivata rabbia e trasmette serenità, può placare il turbamento e allontana la minaccia. Non occorre essere Einstein per adattare la teoria della relatività all’esercizio quotidiano e la soddisfazione ottenuta per gli obiettivi raggiunti da Lillo ‘senza rete’ dopo aver profuso tanto impegno, a volte contro la sua volontà, vale le mille vittorie di chi vince facile ‘a favor di vento’. Stringere forte il suo viso per incontrare la profondità dei suoi occhi che si dileguano e non arrendersi a quello che sembra un rifiuto; udire incredula la sua voce limpida di ragazzo, priva di suoni gutturali, che pronuncia la parola mamma, distintamente, prima di ripeterla, sorpreso lui stesso, e avvertire un’emozione che non si può descrivere perché non è più solo un effimero sogno. Non è vero che l’emozione non ha voce, come solitamente si crede e come ribadisce la canzone; per Paola l’emozione ha una voce sola, quella del suo Lillo. L’adolescenza di un ragazzo autistico ha le pulsioni, l’eccitazione, il magma incandescente e ingestibile proprio di uno sviluppo acerbo e incompiuto che genera corto circuito. È una sessualità spesso fraintesa, che avrebbe diritto di avere naturale sfogo, di godere la gioia del contatto umano, della carezza, dell’innamoramento, di provare l’emozione di un bacio, di essere fino in fondo persona. Le scelte di ogni genitore, già di per sé difficili, in questo caso diventano tremendamente complicate da adottare. L’affetto delle maestre, dopo cinque anni difficili, il richiamo della madre ai compagni di liceo perché lo accolgano nel nuovo percorso scolastico senza schernirlo e la scoperta che Lillo è benvoluto soprattutto dai ragazzi più strani, quelli più scalmanati. La festa dei 18 anni sarà un successo imprevisto, un pomeriggio, in discoteca, fra luci e suoni, in una baraonda indescrivibile, i selfie in compagnia di quei ragazzi che non t’aspetti e che Paola battezza, a ragion veduta, ’simboli di speranza per l’intera umanità’, loro, così diversi e così originali e veri nell’essere semplicemente se stessi.
Lo spettacolo si chiude con l’interrogativo più angosciante e la paura più grande, quella del domani, di un domani incerto da preparare con cura, ma come? Il dopo di noi non è mai ipotesi remota e non può esserci soluzione decisiva. Chi potrà dare al figlio l’amore sconfinato di cui ha bisogno? Chi? E allora la rabbia di una madre disperata, che deve preservare il proprio amato figlio dall’insulto più grande, è più di un’invocazione, è l’urlo che scuote il cielo e pretende almeno l’ultima, significativa risposta. Pretende di esserci fino alla fine, finché ci sarà bisogno di lei. Il buon Dio misericordioso non può farsi da parte, non ha il diritto di abbandonarla dopo averla svuotata di ogni energia, dopo averla umiliata. Sarebbe troppo comodo, sarebbe troppo ingiusto, sarebbe troppo. E basta.
Superba interpretazione di Daniela Rosci e Lorenza Guerrieri nel ruolo di madre. La prima parte del dramma è affidata a Daniela Rosci che impersona il ruolo con indiscussa personalità, fiera ed elegante, misurata e suadente, delicata e ‘raffinata’, in un dolore che non conosce e deve imparare a gestire, atterrita e fragile e poi indomita, troverà dentro di sé risorse inesplorate e il conforto di un’ironia sorprendente per affrontare il nuovo percorso. Lorenza Guerrieri è l’esuberante madre della accettazione. Intraprendente e bizzarra, notevole padronanza scenica, caracollante in una fisicità dirompente, impudente e provocatrice per legittima difesa, esalterà il ruolo di madre tetragona con una intensa invocazione al Padre che chiude l’opera. Convincente e funzionale l’artificio di avvicendare due attrici di grande spessore, dalle diverse caratteristiche, nel medesimo ruolo, quasi a significare le varie anime, i diversi stati d’animo, le sfumature dei sentimenti, i laceranti contrasti e le insormontabili paure che compongono l’universo di qualsiasi madre accomunata dal medesimo, avverso, luminoso destino.