La solitudine abbandonica e la gelosia della donna tradita. Contesti sociali agli antipodi abitati da donne sole e straziate dal dolore. Il desiderio della morte dell’amante. Questa la lettura che Emma Dante fa del dittico La voix humaine e Cavalleria rusticana, scelto per inaugurare la nuova stagione OPER.A 20.21 della Fondazione Haydn. L’insolito accostamento getta nuova luce sulle protagoniste con coerenza e sapienza teatrale in un crescente coinvolgimento emozionale.
Nel monologo di Poulenc-Cocteau Elle, avvolta in una vestaglia rosa cipria, si aggira nervosa per la stanza. Due letti, comodini, un telefono, null’altro. È una donna ancora piacente, accorta nella gestualità e mai sopra le righe, patetica nella vana ricerca della “vie en rose”. In questo spazio rosato, quasi una bomboniera, assistiamo al dialogo tormentato tra i due amanti, lui un tanguero in smoking rosa che appare e scompare assieme a altre donne, forse uno gigolò. A un certo punto soffitto e pareti la imprigionano, l’ambiente vira dal rosato a un chiaro verde menta, due diaboliche infermiere e un dottore svelano la realtà. Elle è ricoverata in un ospedale psichiatrico, parla nella cornetta staccata dal telefono e attraverso di essa rivive lo shock dell’abbandono che l’ha portata a impazzire per lui. Il dubbio aleggia su come sia andata a finire. L’ha strangolato lei stessa col filo del telefono? Oppure è ciò che lei avrebbe desiderato fare, ma non ha fatto? È il superamento dell’idealizzazione dell’amato? Il fascino dell’interrogativo sospeso è l’originale intuizione della regista palermitana. La scena, creata da Carmine Maringola, ha un taglio orizzontale, vago omaggio al cinemascope, dove le luci di Cristan Zucaro sono fondamentali per la comprensione della narrazione.
Nessun interrogativo aleggia invece su Cavalleria, dramma della gelosia che non risparmia nessuno. Da siciliana, Emma Dante gioca in casa. Scevra per una volta da ambientazioni folkloristiche, eccezion fatta per alcuni dettagli nell’entrata di Alfio e nel duetto di quest’ultimo con Turiddu, la sua Cavalleria concentra ogni sforzo su gesto e parola. Potrebbe essere la Sicilia rurale dei giorni nostri, come quella di un passato lontano, quasi mitico, durante la Pasqua. L’intensità della fede si mischia con la vendetta di Santuzza, sedotta e abbandonata. Un Cristo porta croce si aggira tra le quinte e solo Santa, durante l’intermezzo, lo libererà dal calvario a scapito del destino di Turiddu. Con la stessa forza de Le sorelle Macaluso, Dante sa toccare le corde più intime dello spettatore, grazie a un crescendo di tensione che culmina nel finale, dove mamma Lucia, sola sul palco, diventa nuova Mater dolorosa, trafitta dal dolore e consolata da un compianto manieristico. Le scene, sempre di Maringola, consistono in tre moduli che, manovrati a vista dal coro, compongono diversi ambienti esterni. Parlano anche i vestiti di Vanessa Sannino, tutti neri ad eccezione della vestina chiara di Lola, quasi a indicarne l’estraneità sociale e morale.
Francesco Cilluffo legge la tragédie lyrique di Poulenc rimanendo fedele alla molteplicità delle sfumature drammatiche. La stessa Orchestra Haydn, che si conferma punto di riferimento per il contemporaneo, sembra porsi le stesse domande, gli stessi indugi che puntellano il monologo di Elle. Il suono è sempre asciutto, chiaro e mai copre l’intelligibilità del testo. In Cavalleria la direzione di Ciluffo si fa ricca di colori, dinamiche e tempi che la trasformano da bozzetto popolare verista a dramma squisitamente intimista.
La difficoltà della Voix humaine, si sa, è trovare un soprano lirico-drammatico dotato anche di una recitazione degna di un’attrice del teatro di parola, perché l’azione è tutta lì, tra lei e la cornetta. Anna Caterina Antonacci è l’artista ideale per il ruolo, affrontato con determinazione da fuoriclasse. Pause, incertezze e silenzi sono resi con impeccabile perizia, complice il fraseggio sublime e il magistrale controllo dei registri. Antonacci rapisce lo spettatore con il suo indiscusso talento e fascino da primadonna e lo fa perdere nella bellezza di un accento, d’una frase, di un respiro, dimostrandogli quanto studio ci sia dietro la perfezione delle grandi cantanti.
La Santuzza di Teresa Romano si fa apprezzare per la linea di canto omogenea, convincente in acuto e ricca di colori, utilissimi per far risaltare la complessità del personaggio. Angelo Villari è Turiddu dal bel timbro brunito, facile all’acuto e a suo agio in tutta la tessitura. Generosa nel canto e sulla scena, Giovanna Lanza è Mamma Lucia davvero intensa, accigliata e diffidente. Mansoo Kim non è il solito Alfio villano, tutto muscolo e niente cervello, ma uomo dignitoso, quasi incredulo ad accettare la realtà dei fatti, capace di piegare la potenza della voce a sentimenti contrastanti. Francesca Di Sauro è Lola ammaliante, sensuale nel canto e nel gesto, una pericolosa sirena.
Il Coro OperaLombardia, diretto da Diego Maccagnola, merita un encomio.
Il nutrito pubblico della prima tributa consensi calorosi all’intera produzione.