di Alessandro Bergonzoni
scene Alessandro Bergonzoni
regia Alessandro Bergonzoni, Riccardo Rodolfi
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La quindicesima opera teatrale di Alessandro Bergonzoni si apre con un palco seminudo: un trabattello è posto sul lato destro della scena e l’attore, collocato sulla sua sommità, cammina avanti e indietro mostrando solo i grandi piedi, calzati da bianche scarpe bizzarre. Da quella posizione privilegiata e sopraelevata osserva l’umanità: da qui può cominciare il vortice funambolico di giochi linguistici con cui costruisce storie e personaggi, solo in apparenza slegati dalla nostra realtà. Le risate sgorgano da subito fragorose, dal momento in cui il pubblico riconosce lo stile unico della comicità dell’autore bolognese. A tratti appare difficile cogliere appieno ogni singola battuta nello scorrere impetuoso dei motti e dei doppi sensi, tra le gag e le freddure; infatti si sta ancora ridendo di una mentre l’altra è subito infilata, a tradimento.
Alcune battute, davvero gustose e intelligenti, fanno scaturire risate spontanee e molto abbondanti; altre, pur rispolverate da vecchi repertori, suscitano ugualmente un sorriso o una risata, soprattutto per la modalità con cui vengono raccontate, genuina e coinvolgente. Gelano, invece, stridendo in mezzo alle altre, quelle legate ai temi più complessi e delicati della nostra realtà: immigrazione, violenza sulle categorie più deboli e abusi di potere.
Viene da chiedersi se la volontà del comico sia quella di interrompere bruscamente lo scroscio di risa, sferzare le coscienze assopite e distratte dalla stessa ilarità, mostrando a tradimento quelle storture del mondo contemporaneo, quei problemi che sussistono e, forse, sono troppo importanti per essere taciuti ma troppo grandi per essere davvero affrontati in questa sede.
A questo proposito lo scrittore sostiene come trasalire soltanto dinnanzi ai casi della cronaca non basti: è necessario trascendere, cominciare a passare a un’altra dimensione pur senza dimenticare il presente e la realtà. Dopo il Teatro del Rinascimento abbiamo bisogno di un Teatro del Risarcimento, che risarcisca questa umanità viva che preme da tutte le parti e che l’autore, con gesti plateali, invita a più riprese, durante lo spettacolo, a uscire sul palco per mostrarsi. Un teatro che proponga nuovamente la rivoluzione del pensiero: siamo sommersi da una marea di domande e inchieste ma qual è l’inchiesto? Quali sono le domande e le istanze di cui vogliamo davvero farci portatori?
Attorno al palco non ci sono delle quinte, ma delle quintessenze che racchiudono dei semi-nascosti: in pieno stile Bergonzoni non qualcosa o qualcuno celato parzialmente ma dei semi coperti da un fresco strato di terra in attesa di essere innaffiati, curati e fatti germogliare al sole.
Lo spettacolo si dipana poi con l’attore che discende da questa struttura precaria e allo stesso tempo imprigionante per arrivare davanti al pubblico e narrare un’umanità grottesca, surreale ma assolutamente autentica. Storie di matrimoni, vicende familiari, premonizioni catastrofiche tratte dal grande libro della vita ma soprattutto della morte si alternano a canti onomatopeici e persino a un inno dei barbieri. Si giunge all’atto finale, in cui il comico si nasconde ancora (sono ancora i piedi che attirano la nostra attenzione!) per una strampalata richiesta di riscatto dove è l’uomo stesso a doversi riscattare, a costo di cedere anche alle più assurde richieste.