Niels Bohr nasce a Copenaghen nel 1885 e qui muore 77 anni dopo, dopo aver elaborato un modello atomico che gli valse il premio Nobel per la Fisica nel 1922. Dieci anni dopo, della stessa onorificenza fu insignito un suo allievo, il tedesco Werner Karl Heisenberg, noto per il suo principio di indeterminazione. Le loro vite e carriere si intrecciano per anni, fino alla cosiddetta interpretazione di Copenaghen, la loro idea di meccanica quantistica, fondata sui principi di indeterminazione e di complementarietà, che formulano insieme intorno al 1927. Ma c’è un’altra data nelle loro vite che verrà ricordata: settembre 1941.
Nel frattempo sono state emanate le leggi razziali e la Danimarca è stata occupata dai nazisti. Bohr (Umberto Orsini) e Heisenberg (Massimo Popolizio) si incontrano a Copenaghen, con loro c’è anche la moglie del fisico danese, Margrethe (Giuliana Lojodice). Su cosa si siano detti sono state teorizzate svariate ipotesi, scritte pagine e pagine. Il giovane fisico tedesco avrebbe forse voluto proteggere il maestro, quasi un padre per lui negli anni passati a studiare insieme i segreti della materia. O magari la visita aveva uno scopo apparentemente più scientifico e, di fatto, in quel preciso momento storico, più politico: rivelare a Bohr, per metà ebreo e schierato con gli Alleati, gli avanzamenti delle ricerche sulla fissione, o, al contrario, cercare di estorcerli a lui. Lo spettacolo di Michael Frayn, qui con la regia di Mauro Avogadro, cerca di dare una risposta all’interrogativo che negli anni ha tormentato scienziati, storici e curiosi. Di cosa hanno parlato Bohr e Heisenberg in quel colloquio a Copenaghen?
Frayn concede il beneficio del dubbio, ricreando sul palcoscenico i possibili dialoghi tra i due fisici, che «non conducono a una completa determinazione di ciò che accade nello spazio e nel tempo» come recita il principio di indeterminazione. Copenaghen fa tesoro però anche dell’altro principio fondante, quello della complementarità, secondo cui un fenomeno fisico si manifesta nei suoi aspetti attraverso esperimenti diversi, mai simultanei, ma complementari perché necessari alla descrizione completa del fenomeno. Allo stesso modo il colloquio è analizzato nelle sue diverse sfaccettature per dare solo in conclusione, in hegeliana sintesi, una descrizione dei fatti vicina al vero. E la conclusione di Frayn è quella immaginata e sperata dalla comunità scientifica per molto tempo: più o meno consciamente, angustiato tanto da un conflitto interno quanto dalle conseguenze che le sue scelte avrebbero avuto sul conflitto vero, quello esterno, Heisenberg non avrebbe esposto alla sua Germania le conclusioni a cui era giunto sulla fissione nucleare. Quelle stesse conclusione a cui era arrivato Enrico Fermi e che per primi gli Stati Uniti sfruttarono.
Tra la prima messa in scena italiana, che vantava lo stesso trio d’eccezione, diretto già vent’anni fa da Avogadro, e oggi c’è di mezzo una lettera. Una lettera scoperta nel 2002, scritta da Bohr a Heisenberg dopo il loro colloquio, ma mai spedita. Una lettera in cui è evidente il proposito di Heisenberg, che era a capo del programma militare nucleare tedesco, di collaborare alla costruzione della bomba atomica. Naturalmente un proposito non è un’azione e resta il fatto che il giovane fisico tedesco abbia espresso a Bohr il dubbio che è, alla fine, il nocciolo della questione: se i fisici «hanno il diritto morale di lavorare a un utilizzo pratico dell’energia atomica».
Orsini e Popolizio si confermano due perfetti attori scienziati, meticolosi e persi nell’astrattezza con cui inseguono la realtà. Giuliana Lojodice ha la presenza scenica giusta per interrompere quando necessario il dilungarsi delle peregrinazioni scientifiche, mantenendo la dovuta serietà del contesto. Uno spettacolo che racconta una storia incerta come farebbe uno storico, analizzando le fonti e proponendo una versione il più verosimile possibile, con un pizzico di arbitrarietà che a teatro dobbiamo permetterci.