Un omaggio poetico a una carriera mitica. È quello che Melania Giglio tributa all’arte e alla personalità di Édith Piaf con una drammaturgia scritta e interpretata per la regia delicata ed elegante di Daniele Salvo.
Nel 1960, priva di slancio e fiaccata dall’artrite che l’ha ingobbita e le ha rattrappito le mani e dall’alcool e dai medicinali che le hanno fatto perdere i capelli, la cantante vive rinchiusa nel suo appartamento con i mobili e gli specchi coperti da drappi, come una casa in disarmo in cui echeggia la voce dell’uccellino che non ha più il suo pubblico.
L’atmosfera stagnante viene scossa dall’arrivo di Bruno Coquatrix; l’impresario dell’Olympia di Parigi vuole farla ritornare a cantare sul suo palcoscenico che rischia di chiudere per fallimento.
Il piccolo usignolo è appassito, percosso da lutti e malattie. Il successo è una chimera eclissata, può solo rievocarlo ricantando le canzoni che l’hanno consacrata, per intrattenere il vecchio amico: L’accordéoniste, La vie en rose, Milord.
In pantofole e vestaglia rosa, con la testa chiazzata dalla calvizie, le mani anchilosate e la stessa inimitabile voce. Coquatrix è sempre più entusiasta e tenacemente punta a fiaccare l’ostinazione di Édith restia a riaffrontare le luci della ribalta. Sostenuti da una bottiglia di vino, nonostante i due coma epatici, affiorano aneddoti, ricordi, ricoveri, i mostri della depressione, la misera infanzia con il padre circense e la madre cantante di strada, il talento per il canto, le celeberrime canzoni.
L’usignolo rievoca e canta: Hymne à l’amour, Sous le ciel de Paris, La vie en rose (divenuta simbolo della liberazione francese dall’occupazione tedesca nel 1945), l’incontro con Yves Montand e Marlene Dietrich e il campione di pugilato Marcel Cerdan la cui tragica morte in un incidente aereo l’ha fatta precipitare in uno sconforto assoluto.
Per indurla a uscire da quella casa divenuta un sarcofago, Coquatrix cala il suo asso proponendo la canzone: Non, je ne regrette rien. Sarà la storica esibizione del 1961.
L’immedesimazione che Melania Giglio ha fatto della Piaf è quasi maniacale. Ne rende la sofferenza fisica e l’abbattimento morale facendone emergere gli intimi tormenti e la profonda fragilità. Gli atteggiamenti, la postura, le mani, il linguaggio. E il canto, potente e caratteristico, sempre dal vivo, intercalato ai racconti autobiografici e alle sorsate di vino con l’impresario, muovendosi per la casa a passettini strascicati.
Martino Duane è un valido comprimario, figura fondamentale dell’impostazione drammaturgica.
La scenografia (di Fabiana Di Marco) che ricrea l’abitazione e la vestaglia rosa (costumi di Giovanni Ciacci) suscitano un’atmosfera intimista che si ribalterà nella scena finale in cui la stanza si trasforma nel palcoscenico dell’Olympia dove Édith coglie l’ultimo successo avvolta in un tubino nero.
Un viaggio tra un mesto presente e un fulgido passato che raggiunge l’acme nell’emozionante finale in cui torna a brillare la fiamma dello strepitoso talento.