Raramente capita di assistere ad una idea di regia forte al punto che, pur traslando l’azione descritta nel libretto in uno tempo-spazio a lui estraneo, riesca nell’intento di mantenere saldo e coerente il senso dell’opera nel suo insieme.
Per questo Attila, in scena fino all’8 gennaio 2019, che inaugura la nuova stagione scaligera, la sorpresa è stata indiscutibilmente piacevole, soprattutto grazie ad una macchina che ha lavorato nella sua interezza a livelli davvero altissimi.
Il libretto – ispirato dalla tragedia Attila, König der Hunnen, del 1809 di Zacharias Werner – ha visto una prima stesura ad opera di Temistocle Solera, e una revisione successiva di Francesco Maria Piave, che interviene pesantemente sui primi due atti e scrive per intero il terzo.
Giuseppe Verdi compone lo spartito (la sua nona opera) tra il 1845 e il 1846, anno della prima alla Fenice di Venezia, in pieno clima risorgimentale: il soggetto alto medioevale diventò un simbolo del nazionalismo italiano, tanto da essere ricordato quasi più per il suo valore “storico-sociale” che per il suo effettivo pregio artistico.
In questo senso, quindi, l’operazione di Riccardo Chailly e Davide Livermore è in un certo senso doppiamente interessante, perché consente una riscoperta e una attualizzazione dell’opera, che mantiene il suo nocciolo inopinatamente romantico, pur spogliandosi della retorica inevitabile dell’epoca, vestendo i panni di un tempo più recente, anche se non bene precisato, ma che ci è sembrato di riconoscere nella Germania nazista.
Una Germania nazista che somiglia però più ad una astrazione per citazione, che ad un riferimento esplicito, seppur inequivocabile: in questo ci ha ricordato vagamente la meravigliosa poesia della Tomania inventata da Charlie Chaplin nel Grande Dittatore, dove l’orrore diventa una nota di sottofondo delicata, ma presente come un basso continuo.
Non mancano comunque le ellissi temporali, che riportano – bisogna dirlo, in modo del tutto non forzato – al tempo narrativo ideato da Verdi, in particolare con l’apparizione del papa e del suo seguito. Questa similitudine appare non forzosa, grazie ad un ingegno particolare adottato nelle sontuose scene del gruppo Giò Forma, e dai memorabili costumi di Gianluca Falaschi.
Non da meno, la bacchetta di Chailly, fa da collante a questo insieme monumentale: precisa, eppure epica, ma allo stesso tempo delicata e sensibile, la sua concertazione si conferma come una delle più interessanti sulla scena contemporanea, dimostrando ancora una volta una sensibilità rara e un’attenzione verso il maestro di Roncole dalla prima (meraviglioso il preludio) all’ultima nota.
Sul cast ha brillato in particolare Ildar Abdrazakov, che si conferma un interprete di primissimo livello: dotato di una tecnica impeccabile e di grande attitudine drammatica, con un timbro pulito, potente, memorabile.
Bravi comunque tutti i co-protagonisti, a partire da Saioa Hernández, forse un po’ troppo concentrata sulla potenza e un po’ meno sull’espressione, ma comunque assolutamente all’altezza, così come Fabio Sartori, nel ruolo di Foresto.
Grande successo di pubblico in un teatro gremito e scrosci di applausi convinti a fine recita e a scena aperta, in particolare per Abdrazakov e Chaily.
Insomma, nel complesso questa produzione vale bene la pena di essere vista, anche da chi, per gusto personale, non ama i riadattamenti e le regie contemporanee.
La recensione si riferisce alla recita di venerdì 21 dicembre.