Colonne di scaffali pieni di polverosi e vecchi libri si stagliano imponenti e quasi minacciose su Mattia Pascal in questo fortunato adattamento dell’omonimo romanzo del Nobel agrigentino voluto da Daniele Pecci e Guglielmo Ferro, che firma anche la regia. Tra la foschia e la polvere che tutto avvolge ad uno ad uno fanno la loro comparsa i fantasmi della vita di Mattia, presenze ostinatamente vive quanto fluttuanti e inafferrabili.
Il dialogo con il prete durante il lavoro di catalogazione dei libri in biblioteca si fa pretesto del racconto dell’infelice protagonista, come se l’anziano interlocutore fosse in realtà la coscienza dell’uomo, l’invito a riflettere con giudizio critico sugli atti compiuti nel corso della sua vita senza sconti o mancanze di sorta. Coerentemente con questo, la veloce e impaziente scrittura funge da ancora, appiglio della memoria per far sì che non vadano perse nell’oblio relazioni, situazioni, persone, vita.
Il senso di instabilità che si percepisce si rivela segno scenico, oltre che drammaturgico: le alte colonne di libri si scompongono e ricompongono via via in forme diverse conferendo alla scena diversi tagli di porzione del reale, a seconda del momento narrato. Così i fantasmi della vita di Mattia trovano una loro collocazione spaziale vera e propria, ponendo l’accento sul punto di svolta: il cambio d’identità da Mattia Pascal ad Adriano Meis. Nell’adattamento teatrale questo coincide con l’inizio del secondo atto. È Pecci ad interpretare Mattia prima e Adriano poi e nelle differenze di caratterizzazione del personaggio è contenuta tutta la bravura dell’attore. Alla goffaggine e la voce quasi roca dell’anonimo Mattia si contrappone la spigliatezza e il fascino smagliante di Adriano, barba incolta e occhiali da sole a voler nascondere il segno distintivo della sua vera d’identità, successivamente reciso simbolicamente tramite l’operazione agli occhi a cui si sottopone.
Nonostante i “sogni di gloria” e l’amore della giovane Adriana, Mattia però dovrà ben presto fare i conti con la dissoluzione dell’agognata libertà, travestita da incombenze sociali e burocrazia. Il ritorno alla vita passata, andata nel frattempo avanti senza di lui, eppure sempre uguale nel finale con il prete in biblioteca, dipinge metaforicamente l’inesorabile circolo vizioso che imprigiona la vita e la chiude in sé stessa, come Pirandello insegna.