Non la vendetta, non l’amore, non l’impeto della passione ma il ricordo. Sì, è il ricordo, a mio avviso, che muove le fila de Il trovatore, opera di Giuseppe Verdi andata in scena al Teatro Comunale di Bologna per l’apertura della stagione teatrale del 2019.
Il ricordo è l’anelito, l’elemento propulsore che induce alla vendetta, al desiderio di rivalsa, all’odio, all’ira che si scatenano nella pièce. Quel ricordo che ristagna nei cuori, fatto di sofferenze atroci che non si riescono a far andare via e imputridiscono nel cuore creando paludi che risucchiano i sentimenti e le azioni, proprio come narrava Dante nell’ottavo canto dell’Inferno, riservato alle anime degli iracondi, sommersi nella palude di Stigia.
Ed è nel ricordo che si compiono le scelte artistiche del regista texano Robert Wilson, noto per la sua collaborazione con Philippe Glass con cui mise in scena nel 1976 Einstein on the Beach e che, oltrepassata l’iniziale avversione nei confronti dell’opera verdiana a suo dire troppo pomposa, sfarzosa e romantica, dopo aver studiato approfonditamente il compositore parmense e averne comprese l’intima essenza e la grande bellezza interiore, ha messo in scena ben quattro opere verdiane.
E, anche questa volta, il regista texano non rinuncia alla sua cifra stilistica agendo per sottrazione, spolpando all’osso la scenografia, tutta la vicenda si svolge in un grande cubo scuro, dove i veri protagonisti sono, oltre agli attori in scena, i costumi di Julia von Leliwa e le luci che non sono una semplice decorazione, ma diventano protagoniste. Lo stesso Wilson dichiara: «La luce nel mio lavoro funge come parte di un tutto architettonico. È un elemento che ci aiuta ad ascoltare e a vedere. Senza luce non c’è spazio». E, in effetti, la luce in questo spettacolo è grande protagonista e immerge la scena vuota di ogni orpello in una coltre bluastra che dona ai protagonisti sembianze livide, cineree, come statue che vagano nello spazio e narrano ciò che un tempo sono state, proprio conservando la scia del ricordo di cui si parlava inizialmente. E come statue si muovono nello spazio con movimenti lenti e scattosi, privi di fluidità e naturalezza.
Forse, ai melomani più accaniti, questo completo scollamento tra azione e concertazione non è sembrato idoneo alla riuscita di un Trovatore coinvolgente e accattivante. Chi scrive invece apprezza molto il minimalismo registico, lo spazio bidimensionale e il contrasto con la grande quantità di eventi e situazioni che dentro di esso si susseguono nella convinzione che possa aiutare ancora di più lo spettatore a innalzare l’immaginazione e ampliare gli altri sensi, non solo quello visivo (di cui spesso si abusa) necessari per fruire al meglio un’opera lirica.
Ciò che invece ha reso pallido il tentativo wilsoniano di ampliare l’esperienza uditiva del pubblico è stata la concertazione non molto convincente del direttore d’orchestra Pinchas Steinberg che si limita a una direzione lineare senza grandi sbalzi, senza la passione e l’impeto necessari per far esplodere in tutta la sua bellezza l’opera verdiana. A questo si aggiungano le lunghe pause che spezzavano la tensione tra una scena e l’altra e la sempre poco convincente scelta di inserire l’incontro di boxe con cui venivano risolti i ballabili nella versione francese eseguita a Parma in ottobre che precede l’inizio del terzo atto, poco apprezzata dal pubblico in sala innervosito da questo innesto estraneo al contesto.
Peccato che nemmeno i protagonisti abbiano aggiunto molta luce alla cupa scena pensata da Wilson. A risplendere più di ogni altro è stata senza dubbio Guanqun Yu. Il soprano cinese ha avuto un bel riscontro di pubblico con la sua performance e il suo bel timbro.
Anche Nino Surguladze ha portato in scena un’Azucena convincente sia nel timbro sia nel portamento fiero e algido. Nonostante la performance vocale sia buona, manca l’accento alla sfumatura tormentata e selvaggia del personaggio, uno dei preferiti di Verdi che l’ha definì una protagonista occulta dell’opera.