Intervista a cura di Il Granchio in Frack
Avete presente quella sensazione di stanchezza che vi avvolge a fine giornata, quell’alone di spossatezza che vi fa sognare ad occhi aperti una doccia calda e quel plaid colorato appoggiato distrattamente sul divano? Era proprio una sera così, piena di sonno e svogliatezza, quella in cui ho conosciuto lo scrittore Vittorio Russo.
Seduta in mezzo a tanta altre persone, tutte rapite dai suoi racconti di viaggio tutte, con quella strana smorfia di sorriso in volto che si ha quando si sta bene qui e ora. Vittorio è un oratore eccellente, mi ero dimenticata quanto fosse bello ascoltare delle storie, forse l’ora tarda, forse il suo piacevole racconto, mi hanno fatto immergere in un mondo di pura poesia dove il viaggio di uno, diviene l’esperienza di molti.
Autore di romanzi, saggi e libri di viaggio, con un invidiabile senso dell’umorismo, Vittorio Russo ci presenta il suo ultimo lavoro: “Transiberiana” e, come un amico di vecchia data, ci apre le porte del treno, ci fa accomodare sui freddi sedili e ci fa rivivere con lui quella lunga corsa da Mosca a Vladivostok valicando terre che pochi hanno avuto il piacere di attraversare.
– Vittorio, scrivere di viaggi è una conseguenza naturale del tuo essere scrittore o del tuo essere viaggiatore?
Difficile dare una risposta categorica. Posso affermare che il viaggio non ha per me una connotazione esclusivamente geografica. Prendiamo ad esempio uno dei miei riferimenti, Erodoto, è il viaggiatore-scrittore per eccellenza, usiamo considerarlo padre della storiografia e histor, un termine che coinvolge la capacità di giudicare e di vedere. Proprio quello che lui faceva, ossia viaggiare per vedere e per raccontare.
Questa è l’accezione nella quale mi piace collocare il mio modo di interpretare il viaggiare. Va da sé che il viaggio, così concepito, ha una connotazione che diventa ludica solo nella prospettiva dell’appagamento di curiosità culturali. Dopodiché, raccontare, diventa il naturale bisogno di esprimere emozioni vissute, di riviverle attraverso le parole, facendone partecipe il lettore in un coinvolgimento emozionale e sensoriale.
Raccontare deve identificarsi col bisogno di sottrarre gli eventi all’oblio. È in questo che Erodoto diventa per le generazioni posteriori lo storico, secondo la nostra ottica, cioè, colui che ha raccontato quello che da reporter ha visto e analizzato. A rileggere le pagine delle sue storie, dopo quasi venticinque secoli, capisci che attraverso di esse entri nel tempo della storia, ossia in un tempo denso di eventi che sarebbe altrimenti vuoto e buio.
– Hai ragione quando dici che i racconti di chi ha visto, c’è stato e ha vissuto, sono in grado di portare il lettore in quella dimensione spazio-temporale altrimenti sconosciuta. Con il tuo libro siamo seduti di fianco a te e percepiamo ogni tua singola sensazione certo che, dover passare giornate intere chiuso su un treno, non rappresenta affatto il tipico pensiero che si ha del viaggio. A che tipo di persona consiglieresti questa avventura e chi, secondo te, non sarebbe in grado di affrontarla?
Questo viaggio è particolarmente intrigante per il fascino che ha fissato nell’immaginario collettivo la sua sterminata estensione geografica e temporale, ma soprattutto per il mistero che lo caratterizza.
Transiberiana non è solo la ferrovia più lunga del Pianeta, ma verosimilmente un’idea esotica che coniuga il senso delle lunghe distanze con la scoperta di dimensioni sconosciute. Viaggi di queste proporzioni trascendono i confini della geografia fisica per sfociare nelle grandezze dell’irreale. Almeno per noi occidentali. Un viaggio così è alla portata di tutti quelli che hanno curiosità di conoscenze etnografiche, è l’ideale per tutti coloro che ritengono la diversità un arricchimento.
Entrare nella dimensione di un viaggio del genere comporta l’esclusione del concetto di tempo e di spazio dal proprio orizzonte. La Transiberiana diventa il modo per svelare il proprio sé a se stessi. Perché il viaggio transiberiano diventa principalmente un viaggio verso la propria conoscenza, verso la propria identità più profonda.
Dopo aver percorso tante miglia, fino al limite estremo della Siberia, dopo che hai schiuso gli occhi sul mar del Giappone, dall’altro lato della Terra, nulla più è uguale a prima. In meglio, credo io. Un viaggio come questo diventa inequivocabilmente un moltiplicatore inimmaginabile di esperienze.”
– Hai definito il treno: un mondo che viaggia su rotaie. Al suo interno la vita scorre come fa il paesaggio al di là del finestrino, senza che te ne accorga, a meno che, non la si guardi in faccia. Mi dici quali sono stati i momenti più difficili di questo tuo lungo viaggio.
Il viaggio vero, come ho scritto, non è quello col treno verso una cosa, ma nel treno verso qualcosa. È nel treno e nell’apparente monotonia del suo sferragliare su rotaie roventi o ghiacciate, nello stridio dei freni o nel rimbombo feroce attraversando gallerie che si perdono nel buio, che ti risvegli in un tempo diverso, che cominci a contarlo con una clessidra senza sabbia. Ecco, i momenti difficili sono quelli che precedono il paventato terrore della monotonia e della solitudine.
Superata questa dimensione si configura un profilo nuovo nelle cose che ti cadono sotto gli occhi. Ogni cosa diventa costantemente un’altra cosa, morbida, sfuggente, sinusoidale, con suoni, colori e odori sempre diversi. Il viaggio, nella mia prospettiva deve esprimere il senso della scoperta e diventare il disvelamento dell’ignoto. L’estensione temporale del viaggio, che dovrebbe tradursi in difficoltà, diventa invece la sua qualità, perché ti dà il modo di apprezzare ciò che scorre sotto i tuoi occhi. Ho detto qualità, perché i sensi, nel rapporto con questo tempo lungo, si fanno moltiplicatori di percezioni. Quello che vedi non ha sfocature, quello che senti ha tono elevato, quello che tocchi si fa tangibile secondo misure che non sono quelle della quotidianità. In altre parole, in un’avventura del genere i sensi, tutti i sensi, sono sollecitati e proiettati ben oltre i loro limiti. È allora che lo scrittore deve farsi de-scrittore.
– Vittorio, quanto è durato il viaggio da Mosca a Vladivostok e quali sono le tappe che ritieni di dover classificare come “imperdibili”?
Il viaggio è durato poco più di un mese. In realtà il viaggio ideale non si misura con strumenti convenzionali. Mi permetto qui una digressione che spiega il senso del tempo come l’ho misurato io quando non ho avuto più bisogno dell’orologio al polso, una volta superati gli Urali e in viaggio per Ekaterinburg.
I Greci dell’antichità distinguevano la misurazione matematica del tempo, che chiamavano chrònos, dal tempo che aveva un valore, perché racchiudeva eventi, ed era identificato col termine kairós. Perciò, un tempo di quantità, il primo e uno di qualità, l’altro. Perché un viaggio in transiberiana abbia senso, occorre fermare il tempo quantitativo (chrònos) e lasciar fluire il tempo qualitativo (kairós). Solo il tempo qualitativo, infatti, denso di eventi, rende indimenticabile il viaggio.
Occorre, dunque, che il tempo che si misura, smargini nella dimensione degli spazi da riempire con esperienze e conoscenze. Solo questo tempo, in un viaggio così, ha senso, perché è un tempo che racchiude eventi. Se in un viaggio siffatto questo non avviene equivale ad aver viaggiato come una valigia! Non ha senso il viaggio. Non ha senso soprattutto questo viaggio.
Ideale sarebbe partire senza orologi fissando idealmente il tempo senza esserne vittime.
Per rispondere alla tua domanda. Ho indugiato fermandomi in città minori per frugare nelle radici del loro passato. Cittadine come Babushkin, dove vissero in larga parte i friulani del Bajkal, o Tomsk, Novosibirk, Irkutsk o anche Ruzino, fino alla fiorente Vladivostok, sono realtà recenti, nate dal sudore e dal sangue di genti delle più vaghe longitudini qui giunte dopo mesi di incerto peregrinare fra vampate di sole e folate di nevischio. Si portavano addosso l’essenziale per la sopravvivenza e nel cuore il proprio passato e la propria identità riassunta forse nei canti recitati in coro cento e cento volte, come echi di ricordi.”
– Pensi che aver fatto questa esperienza con un amico, abbia reso la sua realizzazione più semplice?
Sicuramente il viaggio in due, con una persona paziente e con la quale puoi condividere punti di vista culturali, è quasi una conditio sine qua non. Viaggiare da soli non è consigliabile, non per i rischi che la lunghezza comporta, che sono gli stessi che si possono correre a ogni latitudine, né per un’immaginabile solitudine che può coglierti se non sai dialogare con uno degli altri ‘te stesso’ dormienti in te. Viaggiare in due, significa scambiare riflessioni, approfondire conoscenze e alleggerire il peso delle novità. Viaggiare con un compagno flessibile e indispensabilmente intelligente, spezza ritmi, modifica le curve dell’abitudine, interrompe la regolarità del rullare sui binari di ruote d’acciaio infaticabili che scolpiscono nella mente uno sferragliare tagliente del quale senti l’eco anche quando il viaggio è finito da tempo.
Vorrei essere capace, con il mio Transiberiana, di sollecitare nei lettori quelle curiosità minime che giustificano un viaggio come questo.
Suggerisco di entrare nell’universo siberiano in punta di piedi, senza arroganze etnocentriche come, invece, spesso accade a noi occidentali. Le ricchezze nascoste dei popoli siberiani, se sai osservarle, si svelano con umiltà, non dimenticando mai che il viaggiatore vero non conosce diversità proprio perché delle diversità del mondo nutre la propria voglia di conoscenza. Un’avventura come quella transiberiana può diventare, insomma, una scoperta di se stessi perché, in fondo, che cosa è un viaggio se non un’officina di conoscenza? Un gènoi hòios éi un trovare ciò che si è, secondo l’insegnamento greco. Il percorso del sole in cielo e quello del viaggiatore in terra si dovrebbero sempre assomigliare: dovrebbero avere entrambi lo scopo di scacciare il buio, quello della notte il primo, quello dell’ignoranza l’altro.
– Hai detto che quando non si ha modo di comunicare con una lingua comune, parlare napoletano può essere la soluzione! La cosa mi ha fatto sorridere ma, è vero, se uno ha voglia di capire l’altro, non esistono barriere linguistiche. Mi stavo domandando Vittorio, ti sei mai sentito ‘straniero’ in terra ‘straniera’?
Con assoluta sincerità posso affermare di non essermi sentito a disagio in nessuna circostanza. I popoli più semplici e disponibili della terra vivono sicuramente in Siberia. Lungi da me il desiderio di generalizzare, posso affermare che quasi mai è mancato lo strumento di congiunzione per intendersi. Non servono lingue per capirsi in un continente immenso e inesplorato come la Siberia. Non basterebbero mai fra le decine di etnie con le quali vieni a contatto. Bisognerebbe saper congiungere sempre la curiosità e il desiderio di conoscere, che non è solo quello del viaggiatore che esplora ma anche quello del residente che è esplorato.
Quando ti avventuri fra le persone, tra i viaggiatori che del treno si servono per raggiungere luoghi di lavoro incommensurabilmente lontani o per visitare parenti in città sperdute dello sterminato continente Siberia, capisci che sono viaggiatori dell’ignoto come te. Ho una fila interminabile di memorie che affiorano come bolle dal profondo della mente, difficili da ricacciare nell’archivio dei ricordi.
Perché le distanze fra gli umani sono talvolta maggiori fra i luoghi di origine che non nel comune sentire. Un sorriso diventa uno straordinario anello di congiunzione, un ponte levatoio alzato, un messaggio di concordia e non di conquista. Quelle persone intorno a noi diventavano tutte un pezzetto del mio cervello, della mia natura. Qualcuno mi allungava una bottiglietta di vodka, un altro mi porgeva un bicchiere di carta. Ne versavo un po’ e inghiottivo, come facevano loro sollevando i loro bicchierini di vetro opachi d’uso. Si sentiva la consonanza dello stare insieme perché, è la relazione che costruisce l’identità degli uomini; da soli non esistiamo. Proprio in quella circostanza, riflettevo sulla verità assoluta dell’affermazione di Aristotele secondo il quale chi crede di vivere da solo o è bestia o è Dio.
– Tu e il tuo compagno di avventura viaggiavate in uno scompartimento con altri passeggeri e si sa, in treno la privacy viene meno, gli orari e le esigenze si mischiano con quelle degli altri compagni di viaggio. Immagino che non si debba solo sacrificare il proprio spazio fisico ma, forse, anche il proprio spazio mentale.
L’andare in un viaggio come questo, che non ha cardini di tempo precisi, significa aver messo in conto di dover andare oltre una normalità di abitudini e di quotidianità mille volte vissute. Un viaggio in transiberiana implica l’obbligo della socializzazione. La conoscenza di una geografia umana ricchissima come quella rappresentata dalle decine di etnie siberiane è un mondo di inesauribili scoperte per chi ha curiosità culturali di tipo religioso, artistico, storico, di costumi, di tradizioni, di arte. Non ti accorgi dei limiti che ti impone lo spazio che condividi con l’altro se l’altro è un te stesso sconosciuto col quale dialoghi per conoscere e per conoscerti. Questa esperienza di conoscenza antropologica esclude il concetto di fastidio che nasce nel contesto della quotidianità dell’abitudine.
– Vittorio, quante volte ti sei ritrovato a fissare il paesaggio fuori dal finestrino? Qual è la cosa più bella che ha visto?
I Greci usavano un termine, alétheia, per indicare ciò che non è celato, e alétheia, finisce per diventare pure l’equivalente di verità, che per i Greci era appunto ciò che non è velato. La ricerca di questa conoscenza, che è la verità della vita, spinge ad andare oltre. L’uomo nasce nomade, pellegrino, viaggiatore. Cosa lo spinge? L’avventura? Il fascino di vivere la vertigine dell’imponderabile? Cosa? Cosa spronava i grandi viaggiatori del passato ad affrontare l’alea dell’ignoto in viaggi senza tempo e senza orizzonti lungo percorsi non tracciati? Chi muoveva l’entusiasmo di uomini come Erodoto, Megastene, Nearco, Annone, Erik il Rosso, Ibn Battuta, Francisco de Orellana, Gaetano Osculati ad andare avanti, senza mezzi, senza strumenti di orientamento, soli, col loro passo di camminatori. Tutti i viaggiatori, quelli veri, che ho incontrato in giro per il mondo, erano in larga misura testardi sognatori, spinti sovente dalla molla inossidabile della follia ad andare al di là, a condividere, a moltiplicare, a contagiare altri con la propria febbre. A modo mio sono stato un minuscolo contagiato io pure. I grandi esploratori sono come i cercatori di antichità che, parafrasando l’archeologo Andrea Carandini, sono pervasi da una febbre che li divora perché li spinge a cercare nell’ignoto e talora nell’impossibile qualcosa che non trovano nel quotidiano. Fondamentalmente tutti erano spinti dalla curiosità di conoscere per conoscersi, di essere stupiti dall’ignoto. Chi non riesce a stupirsi vive come un albero che muore dove è nato.
Queste pure sono le motivazioni che ti spingono ad andare, non importa la meta. Perciò si comprende bene come oltre il finestrino, tanto spesso imperlato di umidità, vedi un universo intatto, magari anche amplificato dall’immaginazione, vasto, di dimensioni straordinarie e inesplorate, un mondo capovolto e affascinante. È la vista sull’immensità del lago Baikal la cosa più bella che ho visto al di là del finestrino. Il saliscendi dei cavi elettrici ai lati della strada ferrata era come una sinusoide interminabile che richiamava lo scorrere impensabile di una matita sul foglio grigio del cielo. Quando, a tratti, la foresta di betulle si arrestava, l’orizzonte si allargava a dismisura come un vasto occhio verde di ciclope con la pupilla sgranata su campi di erbe madide di brina. Lontane sfilavano minuscole borgate di case di legno dai colori squillanti: rosa, amaranto, arancione, fucsia. Tutte avevano tetti aguzzi e quasi minacciosi, come prore affilate di corvette che spuntavano dall’onda dei prati. Lo sguardo non riusciva a cogliere tutto lo spazio sterminato nelle profondità senza orizzonte. C’è un termine russo che traduce questa dimensione emozionale e spaziale è: prostori. Equivale, in qualche modo, a grandiosità, a libertà in spazi in cui è assente il limite, ma significa pure senso di vuoto, indeterminatezza, immensità che vince senza opporre resistenza, spazio senza centro, ma anche agorafobia, angoscia, nostalgia e malinconia che scaturiscono dal rapporto con la vastità dello spazio. Lo spazio russo è quello che Nikolai Gogol in Anime morte chiama energia nascosta che soltanto chi ha vissuto in terra russa può comprendere.
– Vittorio, mi racconti un episodio particolarmente divertente o assurdo avvenuto sul treno?
Tutto in un viaggio del genere, affrontato con lo spirito giusto, ha il sapore della leggerezza contenuta nelle assurdità; tutto quello che vedi si colora di cromìe diverse e muove l’ottimismo. Tutto s’indora dell’allegria di sonanti risate, soprattutto le piccole e grandi follie del mio compagno di viaggio, le sue intemperanze goliardiche, come la conquista del suo vello d’oro o un imperdonabile sacrilegio compiuto a mia insaputa in un tempio buddhista della Mongolia. Sono sicuramente piccoli eventi densi di humour che non mi permetto di svelare e per i quali rimando alle pagine del libro.
– Purtroppo, tutto ha una fine, e quando le luci si spengono e la musica si abbassa, non rimane che lasciar la festa. Porto con me un piacevole senso di disorientamento dovuto al lungo viaggio appena fatto insieme a te e, ho riempito le tasche del cappotto di curiosità infantile e matura gioia. Ti trattengo per un ultimo giro di valzer e ti domando: cos’è il viaggio per te?
Viaggiare, nel mio modo d’intendere, coincide col bisogno di vedere per raccontare. Un bisogno che nasce da una smania di fascinazione. La malattia odeporica, come mi piace chiamarla, è il bisogno di dare risposta a una febbre di conoscenza che è normalmente inesauribile, non solo in me. Per quanti orizzonti geografici io abbia raggiunto e per quanti ancora potrò raggiungerne, ho capito che non riuscirò mai a vincermi nel braccio di ferro con la curiosità insita in me. Sono in questo un perfetto platonico nella prospettiva secondo cui, una vita senza curiosità non è degna di essere vissuta. Per la mia esperienza di viaggiatore, un po’ capitano di lungo corso e un po’ corsaro, viaggiare significa alla fine vivere intensamente più vite e si traduce nel bisogno di raccontare perché l’esperienza del viaggio non resti una conquista isolata, sterile e muta. Perché questo equivarrebbe a delimitarla nella sfera dell’egoismo e dell’arroganza culturale.
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Vittorio Russo
TRANSIBERIANA
Sandro Teti Editore
2nda edizione 2018