Dal 28 dicembre scorso e fino al 3 febbraio 2019 al Teatro Prati di Roma va in scena ‘La Presidentessa’, brillante pochade in tre atti di Charles Maurice Hannequin & Pierre Veber nella riduzione di Fabio Gravina che ne firma altresì la regia. Si tratta di una divertente opera comica dal titolo ‘La Présidente’, scritta nel 1912 e rappresentata per la prima volta al Théâtre du Palais-Royal di Parigi nel novembre del medesimo anno. Elaborata al crepuscolo della Belle Époque, condivisa dall’ingegno di uno dei maestri incontrastati, insieme a Feydeau, del vaudeville francese (genere di spettacolo in auge nell’800) e dall’estro creativo di un prolifico romanziere e drammaturgo, la commedia ebbe un successo travolgente che resiste ancor oggi. Due sono le versioni cinematografiche che ne hanno decretato la notorietà anche da noi, quella del 1952 con la direzione di Pietro Germi e un cast memorabile fra cui Silvana Pampanini, Aroldo Tieri, Carlo Dapporto, Ave Ninchi, Luigi Pavese ed Ernesto Calindri, e la più recente e meno riuscita, del 1977, con Mariangela Melato, Jonny Dorelli, Vittorio Caprioli, Gianrico Tedeschi, Luciano Salce e la regia di quest’ultimo. Tra gli allestimenti scenici ricordiamo quello di Gigi Proietti del 2006, vulcanico ed esagerato, provocatorio e geniale, con Sabrina Ferilli e Maurizio Micheli e le sfarzose scenografie di Alessandro Chiti, a poco meno di quarant’anni dalla interpretazione giovanile che l’artista fornì nel ruolo di Ottavio al fianco di Valeria Moriconi. La trama degli autori narra le vicende di Gobette, soubrette irriverente e maliziosa, che usa le sue doti di incantatrice di uomini per gioco e per piacere. Durante una tournée di periferia e nel bel mezzo di una notte licenziosa che si consuma nel modesto albergo dove alloggiava, viene allontanata e si ritrova per necessità ed ostinazione nella casa di monsieur Tricointe, presidente del tribunale, irreprensibile giudice di provincia, colpevole di averne provocato l’epurazione. La donna mette in atto ogni espediente di genere per sfruttare a proprio vantaggio il propizio contrattempo. Si innesca così una spirale di situazioni rocambolesche e scabrose, in un crescendo di tentazioni succulente, di tradimenti intenzionali e di altri conclamati, che non risparmiano nessuno e culmineranno in un finale scintillante un po’ scontato.
La pièce è lo sdoganamento beffardo del pregiudizio e dei tabu, di quella pruderie che investe le classi dirigenti dell’epoca come di ogni epoca. Le tensioni sociali e le disuguaglianze sono delineate ma restano sullo sfondo e non imbrigliano un canovaccio leggero e l’atmosfera goliardica e burlesca della commedia non ne risente. Un’analisi scanzonata e gaudente quindi, ma senza sconti sulle trame della politica e di una giustizia addomesticata, sulla resa impotente alle lusinghe trasversali, sugli intrecci orditi dall’arte della seduzione che espugna abilmente le stanze di un potere arrogante e corrotto. Insomma, puro divertimento da operetta che prende di mira con sferzante ironia vizi privati e pubblici maneggi all’approssimarsi della grande guerra. L’ambientazione della pièce dei due autori d’oltralpe, rivisitata dall’estro di Fabio Gravina, è il territorio a nord di Roma. Siamo a Rieti, e i palazzi del potere romano sono un miraggio irraggiungibile. Una nervosa partita a carte fra magistrati, lo scambio vivace perché incomprensibile tra uno di questi, il giudice Torquato Tregatti (Fabio Gravina), e la figlia Dionisia (Elodie Serra) che studia a Londra ma ha disimparato la lingua dei padri per trauma ricevuto, dispone l’ambiente al giusto nervosismo e a ben più cupi scenari. L’ingresso di Elga (Patrizia Santamaria), moglie di Torquato, ex cuoca, donna verace ed energica, di umili natali e maniaca dell’argenteria splendente, scatena un siparietto fra coniugi che coinvolge il malcapitato, placido ospite, consigliere di tribunale e soprannominato Pinguino (Tito Manganelli) per via della ingombrante mole. Il tapino è stato sorpreso la sera prima al Café-chantant, luogo di perdizione per anime solitarie in cerca di emozioni forti. Le confidenze di Torquato, uomo colto e represso, mortificato da un matrimonio opaco accanto a una donna così diversa per cultura e aspirazioni, al cospetto dell’effigie del venerato Cicerone, evoca prospettive da incubo che l’imminente partenza per la capitale di moglie e figlia finirà per orientare. Battista è maggiordomo dalle fattezze inquietanti ma dal cervello fino. Sarà lui a far accomodare, suo malgrado, l’ospite indesiderata espulsa dall’albergo del Commercio per procurata orgia e schiamazzi notturni; è Diana Disegno (Letizia Cerenzia), alias Gobette, che dopo l’interruzione del festino, è più che mai determinata a rendere la pariglia a modo suo. Intanto, mentre Torquato si accerta della partenza delle sue donne, il primo a farle festa è il tenerone Pinguino, reduce appunto la sera prima dai bagordi di massa che avevano per protagonista proprio lei, Diana, stella del varietà e musa di ogni viveur che si rispetti. Il resto della compagnia è partito per Roma e la cantante rischia di passare la notte all’addiaccio, ma la soluzione è a portata di mura, e sarà quella volpe di Pinguino a servirgliela. Se Diana riuscirà a sedurre il Presidente Torquato, ci sarà una ricompensa per lei: parola di Pinguino. Detto fatto. Peccato che il padrone di casa sia ancora all’oscuro della decisione che gli sconvolgerà le prossime ore! ‘Lo scherzo’ può quindi partire e la smaliziata sciantosa si accomoda in camera senza complimenti. La sorpresa non è ovviamente gradita al destinatario che, rientrato in casa, smaschera l’intrusa. Lo scandalo è nell’aria e le dimissioni dalla magistratura sarebbero l’atto conclusivo ancorché dovuto per l’alto funzionario, stretto tra le avances della lasciva donzella e la supplica a Cicerone, ormai consacrato antenato di rango, oltreché depositario di segreti inconfessabili. Nell’istante in cui il dado è tratto e la trama si ingarbuglia, un altro visitatore ben più compromettente irrompe in casa del nostro. È Cipriano Gaudetti (Fausto Morciano), giovane e isterico Ministro di Giustizia il quale, reduce da un giro di ispezione in provincia, appiedato per un guasto alla macchina, non trova di meglio che rifugiarsi anch’egli sotto l’ambito tetto del bersagliato Torquato. ‘Ovunque costumi rilassati, austerità in caduta libera, non esiste più dignità!’ Sono toni poco rassicuranti e spiazzanti per l’interlocutore quelli assunti dall’aitante, morigerato guardasigilli misogino all’apparenza e bacchettone per opportunismo. E quando l’alto rappresentante della legge tuona, il buon Torquato si adegua deferente. Ma, si sa, la virtù ha molti predicatori e pochi martiri. E il fustigatore alla prima occasione sconfesserà il suo strampalato comizio. La scaltra neopresidentessa è in agguato, coglie l’attimo e rompe gli indugi. La sua apparizione stende Torquato e illumina l’esagitato ministro. Nominata sul campo, si improvvisa sposa virtuosa e fedele e sarà l’artefice del ravvedimento al contrario del ministro. La commedia degli equivoci entra nel vivo di una tumultuosa bagarre. Ormai il tenero, frastornato maritino è relegato a complemento di arredo, mentre i due piccioni sono soggiogati da una lussuria fuori controllo. Il ministro per quella notte trova un’ospitalità malandrina, mentre il povero giudice non si dà pace e intima alla sempre più insistente e provocante Diana di andarsene. Nel frattempo, lontano dalla dimora del peccato, le aule del ministero sono percorse da diffuso malcontento. I collaboratori lamentano un degrado soffocante e proprio il signor ministro è il maggiore imputato. La segretaria Geltrude (Mara Liuzzi) e il succube Bernardini (Antonio Franco) sono due umili servitori di lungo corso. La prima è una zitella impenitente, donna del sud che non sopporta quel settentrionale a capo di un dicastero che, fino al suo arrivo, era stato da sempre appannaggio dei meridionali; scontrosa e pettegola per retaggio e passatempo. Il suo fiuto precorrerà gli eventi. Il secondo è un travet prossimo alla pensione, arguto, di poche parole e tante camminate come passacarte lungo i corridoi del palazzo; perderà molti treni pur di far firmare al ministro l’ennesimo decreto di nomina regolarmente stracciato, ma non riuscirà a prendere l’ultimo treno utile per assistere, in qualità di compare, al matrimonio della nipote. E poi c’è Ottavio Rossi (Matteo Micheli), capo di Gabinetto e uomo di fiducia di Gaudetti, educato ed azzimato, un damerino signorsì leale e fidato. Per poter incontrare quotidianamente colei che il ministro ritiene la moglie del presidente Tregatti, occorre trasferire a Roma l’alto funzionario. Si rischierebbe in tal modo un’interpellanza: troppo rischioso. E poi, di raccomandati in fila per le poltrone che contano è piena la lista del segretario particolare. La parentopoli è in subbuglio. Un rompicapo inestricabile! Il povero Bernardini dovrà disfare la tela di troppi decreti inutilmente approntati e mai firmati per contrordine ricevuto; fino allo sfinimento fisico e alle dimissioni da tempo rinviate per coscienza personale ed anacronistico senso del dovere. La signorina Angelina (Elodie Serra), già amante del ministro prima del ribaltone, si fa annunciare ‘a corte’ ignara degli sviluppi che ne hanno declassato le grazie. Nessuno intende riceverla, tranne quella ficcanaso di Geltrude a cui non sembra vero di poter fare lo sgambetto al suo odiato ministro; la napoletanità di entrambe aiuta a schierarsi e la perfida impiegata aggiunge il personale carico da undici, adottando uno stratagemma improvvisato per incastrare il fedifrago intruso calato dal nord. È poi la volta della signora Tregatti, l’originale, a far visita al ministro, disposta al sacrificio, nella speranza della promozione del marito. La mania degli ottoni vale doppio in trasferta ed Elga Tregatti non si fa sfuggire l’occasione anche nell’ufficio più prestigioso per sfoderare la sua pelle di daino miracolosa che rinnova i metalli. Gli scambi di persona generano un equivoco dopo l’altro. Giunge anche Diana, l’amante vera, l’usurpatrice del titolo di Presidentessa, e la gatta gioca col topo a piacimento, facendolo cadere nella trappola di ogni sua richiesta, con scolastica insolenza. Ma c’è ancora una vendetta in sospeso che deve fare il suo corso e l’ufficio del ministro diventa sempre più affollato… situazioni paradossali che si rincorrono e vestiti che si perdono. Oggetti che si abbandonano distrattamente, mentre ogni residuo imbarazzo viene spazzato via. La famelica Diana fa fuori anche il capo di Gabinetto, l’arrendevole Ottavio. Gli appetiti comuni producono comuni intese e il puzzle delle promozioni sembra trovare gli incastri appropriati; il tassello più prezioso può dunque raggiungere l’agognata meta finale. Ma è tutto in divenire. E la pubblica ammenda da parte dell’alto funzionario di giustizia, reo di aver mentito al superiore ‘supremo’ può riservare effetti contrari insperati. La compunzione va premiata al meglio e la decisione che viene dall’alto, ancorché incomprensibile, suscita baldanza e delirio di onnipotenza in chi era appena stato a Canossa. Che la scure si abbatta inesorabile su chi non sarà in linea col futuro Direttore del personale! Intrighi, equivoci e aspettative dissonanti possono far mutare, oltre agli umori, anche e soprattutto il corso della storia. È all’hotel della Pace, sotto lo sguardo di un solerte cameriere (Tito Manganelli) che avviene la resa dei conti. I misteri e i malintesi si dissolvono, le corna si attenuano, i personaggi ritrovano la propria identità, gli affetti finalmente si compongono.
Il solo gusto del teatro, il piacere del divertimento arguto e canzonatorio sono gli assunti che ispirano gli autori, due cultori di un genere teatrale, il vaudeville francese, che aveva perso la componente musicale; negli ultimi decenni un po’ abusato, e per questo ritenuto, a torto, minore. Fu talmente popolare da divenire, sul finire della Belle Époque, filone di tendenza per mestieranti. Con ‘La Presidente’ siamo in presenza di un piccolo capolavoro. È un testo moderno, che conserva freschezza e attualità, forse ancor più intrigante e verosimile del tempo in cui venne concepito, facilmente adattabile all’odierna contemporaneità che esibisce e cavalca il potere fino allo stordimento. Tutto ruota intorno alla ineffabile sacralità immortale del femminino a cui non si può rinunciare, che blandisce ogni uomo irridendone le debolezze, in grado di sottomettere a piacimento i rappresentanti del potere e le vanità che incarnano. La struttura della commedia è una macchina ‘elementare’ dai sincronismi perfetti. I tre atti che compongono la commedia caratterizzano tre momenti distinti, ben congegnati nei tempi e nei ritmi e in rigorosa sequenza. La sorpresa, individuabile nell’irruzione della soubrette che innesca il gioco, sovverte l’equilibrio; lo scambio di persona e le dinamiche correlate poi inducono le situazioni e dispiegano l’ordito. È nel secondo atto che, superato il presupposto per cosi dire realistico della pièce, si scatena la frenesia spregiudicata e inarrestabile del vaudeville, in un tourbillon vorticoso dai ritmi incalzanti, tra contrattempi, calembours, equivoci, situazioni paradossali e grottesche, porte che si aprono e chiudono, incontri evitati, inopinate agnizioni. E poi il gran finale in cui tutto si esaspera, si moltiplica, sembra non trovare epilogo, finché il miracolo accade e gli incontri ravvicinati producono, se non la verità vera, quella del cuore. Tutti insieme appassionatamente sulla scena a ritrovar se stessi e il bandolo della matassa.
Fabio Gravina ha portato in scena al Prati uno spettacolo coi fiocchi diretto con garbo e maestria. Ha mostrato una assoluta padronanza dei tempi, dei ritmi, delle battute, una esemplare rapidità dei cambi, ha trasferito ai nostri tempi e alle nostre latitudini, una vicenda che richiedeva mano lieve, ironia condivisa unita a tecnica e professionalità smisurata. Nel rispetto dell’originale, supera l’espressione impostata, di maniera, logorata dal tempo e dalle differenze culturali. La scrupolosa, impeccabile cura dei particolari e le trovate di regia che appartengono al suo repertorio, oltreché alle doti di attore di lungo corso, hanno consentito una messinscena corale davvero irresistibile. L’introduzione di spassosi frammenti di attualità politica, di difetti fisici che caratterizzano l’eccesso come metafora, la naturale vivacità dell’eloquio, la scelta del vernacolo che diventa segno distintivo e di appartenenza, sono artifici di una comicità genuina e universale. Per l’impresa si è avvalso di una compagnia composta da artisti collaudati e di razza, di cui conosce a fondo attitudini e virtù, liberandole appieno.
Letizia Cerenzia è l’avvenente e maliziosa Diana, sciantosa dal fascino seducente e intrigante; vezzosa e compiacente, conosce bene la ‘scienza’ antica del corteggiamento e le regole del gioco di cui è l’artefice. Sa essere spietata per civetteria e autenticamente ‘onesta’ nel momento che conta. In quel ‘è come a baccarat…tu hai passato la mano e lui si è preso il seguito’ c’è la filosofia di un’esperienza proverbiale. Dispone a piacimento dei suoi omuncoli come del palcoscenico che ne esalta al pari la bravura indiscussa e le doti naturalmente esibite. Antonio Franco è la goffa macchietta del maggiordomo storpio e vilipeso nonché la appropriata caricatura dell’ossequioso e modesto impiegato statale altrettanto maltrattato che troverà riscatto tardivo. Mara Liuzzi è l’arcigna Geltrude, scaltra ed illibata segretaria dell’ufficio più importante. Nemica acerrima dell’immorale invasore nordico che è anche il suo diretto titolare, mette in atto ogni astuzia per contrastare il nevrotico predicatore e il suo doppio. Svolge la parte con disinvoltura, mestiere e simpatia innata. Patrizia Santamaria è la legittima consorte del Presidente il quale detesta le sue umili origini. È la moglie rude e ambiziosa che non ti aspetti accanto a tanto magistrato; popolana sguaiata e maniaca dell’argenteria. Tanto fedele e innamorata al punto da sacrificarsi al tradimento purché vinca l’onestà …del marito e possa riabilitarsi ai suoi occhi. Una prova scoppiettante, napoletanità da vendere, mimica e gestualità contagiose. Matteo Micheli è il solito superbo istrione. Stravagante capo di gabinetto, portaborse dalla ruffianeria incondizionata a puntello del potente che lo tiene in piedi, rischia il posto ma resta in sella e riesce per di più a ottenere la mano della leggiadra Dionisia. Fausto Morciano è il ministro cinico e brutale disposto a tutto pur di soddisfare le sue voglie. Attore magnetico, dalle indubbie doti drammatiche e dalla recitazione incisiva. Personalità dirompente e notevole presenza scenica. Una rivelazione. Tito Manganelli è uno dei capisaldi della compagnia. Caratterista come pochi, sa fare tutto con eleganza ed irrisoria semplicità, dall’affabile Pinguino, magistrato bonario e impacciato, al cameriere indiscreto e poliglotta. Elodie Serra è la deliziosa Dionisia nonché la furiosa Angelina, amante tradita. Godibilissima nel suo miagolio anglosassone come nel cinguettio e negli ululati da innamorata persa all’indirizzo del folgorato Ottavio.
E infine Fabio Gravina, performer signorile di rara bravura e disciplina. La sua maschera espressiva, a metà fra Peppino e Totò, rinnova la tradizione dei grandi. L’humor compassato e ammiccante, le gags inesauribili, le battute mai volgari, la puntuale e coinvolgente ironia ne fanno un mattatore d’altri tempi. Strepitosa la sua interpretazione di Torquato Tregatti, un concentrato di varia e densa umanità costellata di miserie, tribolazioni e sporadiche soddisfazioni.
Le scene, appropriate ed essenziali, sono di Francesco De Summa. Le musiche originali, intonate al genere, di Mariano Perrella. I costumi, sobri ed eleganti, di TeatroPratistyle.
La regia è di Fabio Gravina.