Giulio Spadon è un architetto affermato, che ha fatto del successo una ragione di vita. Successo nel lavoro, in amore, nelle amicizie, in tutte le relazioni e le occasioni che gli si presentano. Giulio Spadon è quello che chiunque definirebbe un uomo felice, realizzato, eccezionale. Di quelli a cui ci si rivolge, quando si ha un dubbio o un problema. Un punto di riferimento per tutti quelli che lo circondano. E a circondarlo, dietro il sipario del teatro di Rifredi, sono in quattro, agli angoli del palcoscenico: una moglie insicura, un capo apprensivo, un amico tormentato dalle pene dell’amore e un impacciato adolescente che si ribella al padre a colpi di pennello. Ognuno nel proprio mondo, ognuno con un punto d’appoggio su cui sedersi, lamentarsi, e poi rilassarsi a problema risolto. È Giulio che va da loro, sempre in piedi, di corsa, balzando da una parte all’altra per rispondere alle richieste d’aiuto. Non ha vie di fuga, finché non si ferma, finalmente seduto, al centro del palco, su una sedia rossa; accanto a lui una signora di bianco vestita e una scrivania. Vuole aiutarlo, ma lui, Giulio Spadon, uomo perfetto, non ha bisogno di aiuto. Non vuole averne bisogno. Quello stare al centro, che è il punto più vicino a sé stesso, lo mette a disagio. Una vita passata a regalare tempo e spazio alle altre persone lo ha reso logoro dentro.
Su quello stesso palco, davanti al sipario chiuso che incornicia solo lui e nasconde tutto il resto dietro, Giulio è solo, con in mano una targa. Un premio alla sua carriera di architetto e di uomo. Un riconoscimento, che poi vorrebbe dire che qualcuno ha notato il suo talento, il suo impegno e lo ha riconosciuto: bel lavoro, Giulio! Grazie. È difficile ringraziare quando hai fatto tutto tu. Passi i giorni a correre, a regalare soddisfazioni e sorrisi, a prestare spalle su cui piangere e asciugare lacrime, e poi devi anche ringraziare. Alla fine, esplodi. Giulio Spadon esplode, buttando fuori tutti i sacrifici, tutte le buone parole, tutta la falsa modestia di cui si è nutrito. Più butta fuori, più il vuoto dentro si riempie.
Alessandro Riccio indaga un’altra caratteristica dell’uomo moderno, che non presenta come pregio né come difetto, semplicemente descrive, con l’arte di mostrarla nella sua nitida contraddittorietà. L’uomo è fragile e, che lo si chiami egoismo o spirito di sopravvivenza, ha un bisogno disperato di pensare a sé stesso prima che al prossimo. Altruismo è rendersene conto e non strafare. Anche quando chiediamo aiuto, non abbiamo bisogno di eroi, ma di uomini che ci comprendano.
Con le serrature si apre e si chiude, attraverso di esse si può sbirciare qualcuno che si è tirato dietro la porta per non farsi vedere – e a quel punto si può decidere cosa fare del suo segreto. Serrature ci regala un altro spaccato della contemporaneità, aggiungendosi alla ricca galleria di ritratti teatrali che Riccio ha dipinto. Unica sbavatura, l’attore pecca, da vero artista, come farebbe il personaggio che interpreta: strafa.