Comincia sulle note di Stairway to heaven del Led Zeppelin dopo doverosamente dichiarato il proprio omaggio a El burlador de Sevilla y Convidado de piedra, originale di Tirso de Molina con la proiezione di pochi significativi dialoghi: poi il sipario si alza sul Don Giovanni di Molìere, ispirato proprio al testo spagnolo, nuovo allestimento che porta la regia di Valerio Binasco, neo direttore artistico dello Stabile di Torino che produce lo spettacolo proprio con il Teatro Nazionale, il Teatro Argentina di Roma (in scena fino al 20 gennaio).
È uno spettacolo molto cupo ed energico il Don Giovanni di Binasco che offre una visione alternativa e quasi sperimentale di un testo che resiste al tempo mostrando la sua contemporaneità: se siamo in un Novecento vago e piuttosto indefinito con i costumi, abiti moderni di Sandra Cardini e con le scene spoglie di Guido Fiorato cambiate quasi a vista dagli attori in scena, ora per gli interni del palazzo ora per il bar di paese ora negli esterni con luna quasi invadente e luminosa o negli interni della casa del cavaliere moderno fra interni ed esterni con mega luna che incombe sui protagonisti, il primo intervento decisivo di Binasco è di voler concentrare lo spettacolo sulla figura di Don Giovanni, ma soprattutto di voler svincolare la figura del libertino da qualsiasi interpretazione di carattere filosofico che da anni si sono accavallate.
L’idea del regista viene concretizzata anche dalla scelta, non certo casuale, di affidare il ruolo di Don Giovanni a Gianluca Gobbi, carismatico protagonista, che diventa “archetipo inquietante” dalla voce suadente e dalla non indifferente capacità di seduzione che avvince chiunque grazie a un convincente vis affabulatoria, parlantina ingannevole che nulla ha a che fare con una visione cerebrale o malinconica della figura.
Sboccato, autoritario, violento, sprezzante: Don Giovanni è mosso solo ed esclusivamente dalle proprie pulsioni, viene trasformato in un delinquente, un miscredente moderno compulsivo che nonostante tutto riesce a catturare l’attenzione del pubblico nella rivendicazione estrema della sua libertà.
Gli si contrappongono un timoroso Sganarello, Sergio Romano, caricaturale e ossequioso che cerca debolmente di incarnare i valori religiosi e la difesa della moralità, ma cadono ai piedi di Don Giovanni tutte le donne che incontra: la nevrotica Elvira, costretta al convento dai fratelli in cerca di vendetta, la semplice Charlotte, promessa sposa, e lavoratrice in un bar di un luogo sperduto e indefinito dopo tutti parlano dialetto.
Ed è proprio la scelta del dialetto, la lingua dei contadini e dei poveri, che segna anche un ulteriore conferma del lavoro di Binasco di indagare sui dialetti nelle messinscene di testi classici per accelerare la dimensione contemporanea del testo.
Se la parabola di Don Giovanni è una discesa verso la dannazione, l’ultima discesa nel baratro è all’insegna della dissimulazione, la sua morte, accanto alla statura silenziosa del commendatore, è lontanissima rispetto agli stereotipi: è improvvisa, ma silenziosa e senza clamori. Miscredente libertino, Don Giovanni difende la sua libertà e viene vinto silenziosamente dalla morte nell’allestimento fosco ed energico, pensato da Binasco in una visione innovativa e molto personale che tradisce qualche eccesso, ma che conquista il pubblico con il suo fascino. In scena fino al 20 gennaio al Teatro Argentina di Roma, poi in tournée in tutta Italia, fra Genova, Milano, Lugano, Verbania, Modena, Bologna, Udine, Prato fino a marzo.