di: Fëdor Dostoevskij
versione teatrale: Glauco Mauri e Matteo Tarasco
con (in ordine di entrata): Paolo Lorimer, Pavel Zelinskij, Glauco Mauri, Roberto Sturno, Laurence Mazzoni, Luca Terracciano, Giulia Galiani, Alice Giroldini
scene: Francesco Ghisu
costumi: Chiara Aversano
musiche: Giovanni Zappalorto
luci: Alberto Biondi
regia: Matteo Tarasco
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“Dio e Satana sono sempre in guerra, ed il loro campo di battaglia è il cuore degli uomini”. Questa è la frase più importante dell’opera ultima di Fëdor Dostoevskij e racchiude in sé la summa del pensiero dell’autore russo, il quale, ravvisando nell’uomo il contenitore dell’enigma dell’universo, tenta in tutte le sue opere di carpirne il mistero. Egli non giudica, non assolve e non giustifica i suoi personaggi: bensì cerca di comprenderli e di farceli comprendere.
“I fratelli Karamazov” è un testo che raccoglie molti elementi autobiografici ed i temi fondamentali del pensiero dostoevskijano: l’esistenza di Dio, la religione, la libertà di scelta, il senso di colpa, il significato del dolore e della sofferenza; tematiche che hanno permeato l’uomo Dostoevskij dagli anni di prigionia in Siberia alla morte.
L’adattamento di Glauco Mauri e Matteo Tarasco non esplora appieno tutta la “trama polifonica” del testo originale (che presenta la complessità e la poliedricità del mondo reale attraverso una serie di punti di vista e di espressioni linguistiche non conciliabili tra loro) ma si concentra sul tema del delitto e soprattutto sul personaggio di Ivan, forse il vero protagonista dell’opera (l’antagonista al quale non possiamo non guardare comunque con una certa tenerezza), che si fa portatore del processo di elaborazione della colpa: egli capisce di essere il vero assassino, il burattinaio della tragedia familiare, “incontra” il diavolo durante un’allucinazione e, soprattutto, racconta al fratello minore Alëša, una leggenda scritta di suo pugno: quella del “Grande Inquisitore” (un capolavoro dentro il capolavoro) dove accusa Dio di aver lasciato gli uomini in balia di quel libero arbitrio che essi, nella loro piccolezza, non sono – non possono essere in grado di sostenere e che Roberto Sturno rievoca con il suo sublime tocco d’artista.
La presenza scenica più forte rimane comunque quella di Glauco Mauri; la sua passione, la sua arte, la sua capacità rappresentativa arriva al pubblico carica di pulsione e sentimento. Lui, che aveva esordito nella stagione ’53/’54 alla Pergola proprio con “I fratelli Karamazov” interpretato Smerdjakov al fianco di Benassi, Santuccio e Brignone, è ora l’anziano, il capostipite, il padre, il personaggio attorno al quale ruotano complotti, segreti, alleanze, vendette ed istinti primordiali; l’uomo afflitto da paure che lo fanno più grande della sua dissolutezza. Un ruolo forse in apparenza un po’ marginale, ma la sua presenza scenica è fortissima. “Sono felice di fare teatro perché mi dà la possibilità di essere utile alla società. Voglio far capire il teatro, non tanto nella sua tecnica, quanto nella sua anima”, afferma Mauri e riesce appieno nel suo intento, ormai da decenni, attraverso un’esausta ricerca della qualità poetica dello spettacolo. Anche in questa società così incline all’incapacità di comprendersi e di aiutarsi, una terribile storia riesce a donarci bellezza e poesia e a farci scoprire la gioia e l’amore in tutto ciò che la vita ci dà, nel bene e nel male. Mauri e Dostoevskji ci insegnano che l’uomo è “finito” ma la vita è ovunque.