Quello compiuto da Michele Sinisi non è semplicemente un lavoro sui classici ma anche e, soprattutto, uno studio sul mito, sull’archetipo, su ciò che ormai è diventato patrimonio dell’immaginario comune. Dopo Miseria&Nobiltà, infatti, Sinisi affronta un altro grande testo: I Promessi Sposi, spettacolo prodotto da Elsinor che ha debuttato nel 2018. Mettere in scena uno dei pilastri della nostra cultura, significa assumersi la responsabilità di lavorare su materiale conosciutissimo, di fare i conti con i grandi maestri del passato, ma anche, e soprattutto, di condividere con il pubblico un immaginario comune, ricreando quasi un rito collettivo.
Diventato ormai un’icona, questo testo rivela ancora la sua straordinaria eccentricità, svelando un contenuto vivo, coinvolgente, ironico, a volte spietato.
In questo allestimento, Sinisi non intacca la forza narrativa di uno dei testi più celebri della letteratura italiana ma, piuttosto, lavora sul romanzo, scegliendo alcuni capitoli e inserendo contaminazioni con la cultura pop, abiti moderni, richiami all’attualità, allusioni, tradimenti e incursioni meta teatrali. E così troviamo una Lucia sempre in fuga sui roller blade, un Fra Cristoforo clochard, una coppia di Bravi degni delle peggiori discoteche trash, un Don Rodrigo femminile in completo verde. Sulla scena una struttura di ferro semovente che gli stessi attori girano, montano e smontano a vista a seconda delle esigenze, trasformando i luoghi della narrazione ora nella casa di Don Abbondio, ora quella di Don Rodrigo, ora nella piazza del paese dove imperversa la peste.
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NOTE DI REGIA
I Promessi Sposi va ben oltre i limiti del genere letterario, non è solo un romanzo storico: attraverso la ricostruzione dell’Italia del ‘600 Manzoni prefigurava parallelismi con i processi storici di cui era testimone nella sua epoca, cioè l’800. Lo scrittore non si limitava ad indagare il passato, bensì rifletteva su costanti umane – culturali, psicologiche, spirituali, sociali, politiche – tracciando anche un’idea ben precisa del senso della Storia, e del rapporto che il singolo aveva con gli eventi storici che lo coinvolgevano. E con questo sguardo Manzoni comprendeva meglio il suo presente, inteso come probabilità e non come segreto nozionistico, somma algebrica. Che le cose accadano, che gli altri condividano le nostre azioni e i nostri pensieri non può essere definito a priori, ma lo si può scoprire solo attraverso quella relazione, cominciando con lo sguardo a quel passato. Quello che ne deriva è che nel corso della Storia, sotto forme diverse, molto probabilmente noi raccontiamo la stessa storia: di esseri umani che provano a convivere con le loro inquietudini e le loro aspirazioni, ciascuno in relazione anche alla propria spiritualità.
In quest’opera i personaggi rompono la semplicistica suddivisione in buoni e cattivi diventando più umani, al punto da generare una forza narrativa più complessa, moderna. Essi sono scolpiti a tutto tondo, rispecchiano un’umanità talmente pregnante di vita da generare degli stereotipi, ancora usati oggi nel linguaggio comune (si pensi ad esempio a un don Abbondio o alla figura di un Azzeccagarbugli o di una Perpetua). Una rappresentazione psicologica così accurata fa sì che, salvo poche eccezioni, quasi nessuno di essi sia completamente “positivo” o “negativo”. Il malvagio trova un’occasione di umanità e redenzione, il personaggio positivo (ad esempio Renzo) non è immune da difetti, azioni violente e riprovevoli ed errori anche gravi. La stessa Lucia viene tacciata spesso come egoista, e non sempre a torto: il discorso che padre Cristoforo fa alla giovane al Lazzaretto, benché paterno e benevolo, è durissimo. Bene, credo che quest’opera alla sua identità letteraria abbia aggiunto la consapevolezza di noi contemporanei, cioè quello che la Storia nel frattempo dovrebbe averci insegnato: gli esseri umani devono ricordarsi continuamente di quanto la convivenza non sia un risultato ma un’esperienza da vivere solo ed esclusivamente nell’occasione da cogliere, nel vivere la probabilità delle nostre relazioni. La Provvidenza, la fede, altro protagonista di questo capolavoro, rivela una nuova religione, generata da una antica necessità, ch’è vivere assieme ciascuno nella propria diversità, così ci emanciperemo dalle nostre paure.
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Michele Sinisi (1976) attore e regista teatrale, finalista nel 2014 e nel 2008, e più volte segnalato, per i Premi Ubu. Fondatore di Teatro Minimo, collabora da qualche anno con il Centro di produzione Elsinor, ha lavorato con registi come Baracco, Binasco, Muscato, Cruciani, Bruni, Gonella e Conte. Lavora su testi di drammaturgia contemporanea e su testi classici. Regista e interprete di spettacoli come Miseria&Nobiltà, Scene D’Interni, Riccardo III, L’Arte della Commedia, Le Scarpe, Sequestro all’italiana, Amleto. Regista in La Prima Cena, Il Sogno Degli Artigiani, Agamennone, Macbeth e Moby Dick. Autore, oltre che interprete, di spettacoli come Murgia (Cartolina di un paesaggio lungo un quarto) ‐ spettacolo Generazione Scenario 2003 ‐ Li Mari Cunti, Ettore Carafa, Otello (o La Gelosia di Jago) e Il Grande Inquisitore. È inteprete di Squadra antimafia 7 (Fiction TV) e, per il cinema, nei corti Francesco Padre di Donatella Altieri, L’attacchino di Tiziano Laera, L’altra di Sergio Recchia, Il Cielo della Domenica di Ermes De Salvia, L’oro rosso e Anyway, be di Cesare Fragnelli, e i film Pesci o Puttane sempre di Fragnelli, La casa delle donne di Mimmo Mongelli e Baal diretto da Marcello Cava.
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