L’attrice e sceneggiatrice Paola Tarantino e la regista Sara Ercoli uniscono passione, ingegno e delicatezza nel narrare la storia di una giovane Mary Shelley la cui vita la condusse alla creazione di un mostro, di un’opera che intitolò “Frankenstein, o il moderno Prometeo”. Attraverso le parole e le immagini donateci da “Io, La Creatura – Mary Shelley” entriamo in un mondo ai più sconosciuto dal quale ne riusciamo fuori con nuove consapevolezze e molte domande, così – in veste di spettatore – Joele Schiavone ha voluto porgliene qualcuna:
Buongiorno Sara, buongiorno Paola, volevo iniziare con il chiedervi da dove derivasse il titolo scelto per questo vostro spettacolo in cui lo spettatore può già notare un incontro tra l’opera e la sua autrice.
In origine il titolo esatto era “Io, La Creatura”. Il nome di Mary Shelley fu poi aggiunto per errore, un errore che abbiamo voluto tenere, data la reazione di molti: “Mary Shelley – Frankenstein? Non lo sapevo”. L’Io ribadisce innanzitutto una grande personalità: quella di Mary Shelley. Lo dichiarò lei stessa nei suoi diari che la Creatura da lei immaginata non esiste senza Mary e Mary non esiste senza la sua creatura, e rappresenta qualcosa di più di un compagno immaginario: la creatura definisce l’identità dell’autrice formata attraverso le molte vite vissute e perdute (madre, figli, amici) il cui ricordo è vivo dentro di lei, e il cui desiderio di relazionarcisi, anche fisicamente, non ha mai smesso di addolorarla. Lei stessa diviene così quella creatura incomprensibile, tenera e scomoda, esiliata – con la scusa dello studio dal padre – sconveniente per il suo intelletto avido ed onnivoro, appassionata oltre i limiti della decenza stabiliti nella sua epoca da uomini, formata dai corpi e dallo spirito di chi ha amato oltre che dal suo.
Interessanti le linee narrative attraverso cui si sviluppa “Io, La Creatura – Mary Shelley”. Vi va di parlarcene?
La protagonista si presenta, racconta della sua infanzia e subito esplode la rabbia verso una società ottocentesca al maschile che non ammette che una donna possa avere intelletto e creatività, e che non accetta assolutamente la figura di una donna vicina al sapere, alla creazione e alla ricerca, al pari dei signori. All’inizio a parlarci è la Mary pubblica, pacata, orgogliosa. La vediamo subito dopo entusiasmarsi al ricordo sempre più vivo di quella notte in cui la Creatura prese vita nella sua immaginazione; sorridiamo con lei di Byron e dei poeti ubriachi, ascoltiamo confidenze personali dell’autrice ed entriamo nel suo modo di osservare la realtà, e i suoi compagni di gioco; mentre si muove nello spazio della memoria mostra allo spettatore le dinamiche del suo intelletto. Relativizza apparentemente distaccata il trauma infantile dell’abbandono, rivive la paura di una bambina lasciata sola su una nave ostile, trionfando allo stesso tempo sul proprio terrore, difendendo un cuore provato dalla scomparsa della prima figlia con dissertazioni scientifiche mentre gioca con una bimba a noi invisibile.
Molte le emozioni in gioco…
La grande sfida nel mettere in scena questo monologo è consistita proprio nel riuscire a trasmettere un’esperienza emotiva allo spettatore, condividendo dolori senza appesantirli, addolcendoli in un contrasto che ha voluto restituire una tristezza ma anche un’ironia profonda.
Rispetto proprio a queste emozioni, ho notato un tornare in diversi momenti sul tema della paura e dei mostri, soprattutto interiori. Quali risorse sono presenti in questo dialogo con ciò che terrorizza? E quali in questa donna?
Credo che i mostri vadano prima osservati attentamente, e che sia utile mettere amore dove un trauma, un’offesa, una perdita abbiano nutrito un mostro, che non va in nessun modo ignorato poiché così facendo si espanderebbe a dismisura.
Al di là degli studi (informarsi, sempre) e dei supporti affettivi e professionali che metto al primo posto, credo che le donne abbiano una dote cesellata nei secoli: la pazienza. Ed una innata: l’ironia.
Condividere i propri mostri creando qualcosa da essi come la stessa Shelley ha letteralmente fatto, parlarne con altre persone, familiarizzare con la propria esperienza, aiuta a compattare la propria identità. Mettere amore dove è stato tolto, portare con orgoglio le proprie cicatrici come una mappa emotiva da cui attingere di fronte a nuove difficoltà e sfide, e non solo: per ampliare la compassione e l’empatia con lo sconosciuto, il diverso si hanno armi in più. Ci si può permettere di aprire il cuore di più.
I mostri diventano alleati, non sono da combattere ma da capire, per poi evitare laddove dipende dalle nostre scelte, di dover ripetere le stesse esperienze dannose.
Se una giovane donna si avvicinasse oggi alla scrittura di Mary Shelley, in quali realtà potrebbe ritrovarsi?
In primis nel desiderio di indipendenza intellettuale e nella facoltà di poter operare delle scelte.
Le conseguenze delle proprie scelte sono state coraggiosamente affrontate dalla Shelley, mi sembra utile rappresentare questa figura controversa in un nostro momento storico sovraffollato di scorciatoie verso un bling-bling superficialmente e troppo temporaneamente appagante.
Viviamo in un’era benedetta dal dono del facile accesso all’informazione. Il suo essere stata curiosa e onnivora può senz’altro trovare riscontro in una generazione che si nutre di molta diversità, con l’augurio che poi questa ricerca venga approfondita in qualche campo specifico.
Mary era una donna di passioni, anche intellettuali. Tutto ciò che il fato (e parte del suo carattere) le ha tolto, lei lo ha trasformato in un atto creativo con un risultato letterario che resta universale.
L’atto creativo ci salva dall’affogare nei dolori (chi più chi meno) che la vita comporta.
E invece a chi afferma che questo sia uno spettacolo per donne, cosa direste?
La Shelley scrisse col “Frankenstein” di temi universali: la disperata lotta contro la morte, la perdita di affetti, la ricerca della propria strada espressiva, la lotta per l’indipendenza intellettuale, la passione per la scienza, l’amore per l’estetica intrisa di significato, l’attrazione-repulsione verso il fine ultimo, la pena ed il terrore del diverso, l’amore passionale… Dubito che ci sia anche un solo uomo che non si sia soffermato a riflettere su almeno una delle questioni soprascritte. Ci si identifica con il viaggio di un essere umano, a prescindere sia un uomo o una donna.
Sara, in che occasione sei entrata in contatto con la scrittura di Paola? C’è stato un momento preciso in cui hai scelto di esserne la regista?
Partecipavo a Calcata al bellissimo festival ADArte di Marina Biondi e Igor Mattei (i nostri dedicati padrini che saluto affettuosamente) con un monologo ispirato ad un testo di Dorothy Parker, e ho assistito alla presentazione di “Mary Shelley” da parte di Paola Tarantino che avevo conosciuto a ESTAD (la palestra dell’energico e competente Daniele Monterosi). La scenografia naturale e l’energia di Paola si sono fuse in questa donna, la Shelley, e ne sono rimasta colpita proprio per la modernità del suo pensiero e del suo coraggio perfettamente vissuto dall’attrice.
Era un progetto in nuce, doveva essere un reading ma poi Paola ha deciso di rappresentarlo senza leggerlo. Ne ho visto subito le potenzialità. Ho visto come il corpo avrebbe potuto crescere dentro a quella parola, e come la parola avrebbe potuto prendere corpo esplorando volumi e sfumature diverse.
Qual è stata la riflessione intorno alla costruzione del lavoro insieme? E quale il motivo di determinate scelte registiche?
È stato chiaro fin dall’inizio che la storia scritta da Paola era la storia di una donna e non quella del Frankenstein. Avremmo quindi messo in scena la sua di vita, con la parte relativa alla concezione della Creatura sulla quale non avremmo messo l’accento più di tanto.
Ho vissuto 18 anni in nord Europa laureandomi in Teatro con una specializzazione in mimo moderno ad Amsterdam. La principale caratteristica degli attori e Theatermacher (questa la specifica) di questo dipartimento è il pensare in immagini. Ho cominciato a condividere con Paola le immagini che il suo testo mi suscitava. Il testo è la storia frammentata dell’autrice, dei suoi ricordi, del desiderio di rivendicazione dell’opera (per due anni dalla sua pubblicazione, vista la prefazione del marito Percey, poeta affermato, si credette che anche il romanzo fosse suo), dei suoi amori, e racconta diversi momenti della sua esistenza.
Il teatro nordeuropeo fa nascere l’azione scenica dall’impulso e vive di associazioni emotive più che razionali. Ho quindi applicato questo linguaggio ad un testo che me lo concedeva sia per il tema che per la struttura.
Brandelli di ricordi, brandelli umani che formano la creatura, pezzi assemblati per ritrovare un senso di una esistenza, per ricelebrare la bellezza o ridare vita seppur per un momento ad amori scomparsi. In un comune desiderio di poter vivere vite lineari, che abbiano un inizio ed una fine con all’interno un senso compiuto, ci ritroviamo spesso di fronte ad esperienze parziali, momenti perfetti che non vorremmo far terminare, giorni che si srotolano pacificamente tutti uguali e che malgrado la ripetitività vorremmo fermare, incubi atroci che ci strappano al presente, dolori troppo grandi che non smettono di urlare.
Ho immaginato una donna circondata da memorie e da fantasmi. Una donna che non ha smesso di esprimersi né tanto meno di conversare con i propri amori: una donna che vive con i propri fantasmi e mostri, come ha fatto in vita. Da qui l’idea formale di farla interagire con tutto ciò che abitava i suoi pensieri, la sua immaginazione e le sue emozioni.
La Mary che appare in scena non appartiene più fisicamente al mondo terreno, visita per una notte una delle sue case, uno spazio ormai scomparso, e lo ricrea disegnandone gli oggetti dell’arredo di un tempo adoperandolo come avessero un corpo.
Il suo attaccamento al mondo terreno si mostra nella freschezza di un ricordo che diventa presente, nello specchiarsi in un vuoto per lei pieno, nel poggiarsi ad un tavolo a noi invisibile, nel mostrarci con commozione il ritratto della madre appeso al muro e fatto solo di luce, nella rabbia di chi ancora non può credere che l’intelletto e i suoi prodotti siano prerogativa unicamente maschile.
Dal punto di vista emozionale lo spettacolo offre fotografie, istantanee emotive che prendono una dimensione più profonda: vediamo una Mary bambina, una Mary madre, amante, artista e intellettuale, nei diversi ruoli sociali che ognuno interpreta. Cambia quindi anche repentinamente la voce, la postura, il tono, a seconda dell’emozione che spinge un nuovo impulso a diventare azione.
Il concept frammenti offre una grande possibilità per lasciare andare ogni tanto il tono anche al divertissement: mutano dunque gli stili di recitazione, e si porge un tributo al teatro in un tema che lo consente, anzi direi invita a farlo, sia scandagliando i vari registri dell’attore sia usando quelle macchine teatrali che il Teatro di Documenti offre: botole, macchina del fumo…
Nel finale l’urgenza comunicativa aumenta il mio personale modo di rimpiangere grandi artisti scomparsi, ed anticipa i disturbi psicologici della Shelley a fine viaggio. Ma rappresentare la tragedia tragicamente non ha molto interesse per me, è nel contrasto che cerco la breccia emotiva in cui entrare nell’emozione dello spettatore, e così anche questo finale vira verso il comico: me lo ha insegnato Mary: si può fare!