Quarant’anni fa Luigi Magni scrisse in dialetto romanesco questa commedia insieme a Gigi Proietti, portata in scena nel 1978 dall’attore stesso nei panni del protagonista.
Cantore della Roma papalina ottocentesca, Magni nella sua produzione artistica ha coniugato il registro drammatico del racconto di eventi storici al profilo farsesco dei personaggi.
Gaetano Santangelo, personaggio realmente esistito, è un burattinaio romano che si porta dietro il suo “castello” di marionette girando per le vie della capitale per allietare la nobiltà romana sotto le finestre dei loro palazzi. Sprezzante nei confronti dei precetti imposti dal Pontefice, non si assoggetta all’editto che ordina la partecipazione al precetto pasquale e vieta ogni forma di espressione culturale, tra cui le rappresentazioni teatrali, che condanna gli attori alla fame: “Sudditi fedeli, sete richiamati alla penitenza e al ravvedimento. Penitenza perché tutti, più o meno, avete sbajato a sottovalutà er pericolo. Ravvedimento perché, sia pure scausalmente, con atteggiamenti leggeri e permissivi, ne avete fatorito il dilagarsi. In conseguenza, è reso obbligatorio il precetto pasquale…
Sono proibite alle donne le vesti attillate perché invereconde, la vaccinazione delle crature perché diabolica e l’innesto delle piante, perché alterando il disegno armonico del creato, è contronatura. Ma, soprattutto, vengono soppresse tutte quelle presunte attività culturali le quali che, quando va bene, non servono a gnente”.
Continuando a girare col suo carrettino e preso a manganellate dai gendarmi, digiuno da giorno Gaetanaccio è sopraffatto dai morsi della fame e confida nel conforto di Nina, attrice di una compagnia di giro che, invece, lo molla per inseguire un sogno di successo. Così, dibattendosi tra indigenza e irriverenza, accetta di sollazzare il papa pattuendo una lauta cena, ma la spavalderia prende il sopravvento e il suo compenso sarà la gattabuia.
Nina, delusa ma innamorata, non riuscendo a guadagnare un pasto nemmeno mostrandosi accondiscendente con un prelato, dilaniata dal rimorso si getta nel Tevere. La Morte, sempre in agguato con la sua lunga falce sbuca dai ponti e dai palazzi ammonendolo e dirigendone il destino. La maschera di Fiorillo, figlio di Pulcinella, fa da contrappeso alle smargiassate di Gaetanaccio, piombandogli in casa come personificazione della voce della coscienza.
Giorgio Tirabassi, formatosi alla Scuola di teatro di Proietti, si fa egregiamente carico del ruolo che fu del maestro, con l’astuzia indolente e l’ironia motteggiante del burattinaio che si dibatte tra amore e cinismo. Dietro di lui, soprattutto nei brani cantati, si ha la sensazione che Proietti occhieggi sornione. L’attore, invece, è in sala per applaudire la figlia Carlotta, una Nina esuberante nella presenza scenica e nel canto. Accorato e dolente è il Fiorillo di Carlo Ragone mentre Elisabetta De Vito è una scanzonata Morte in rosso e nero, Daniele Parisi è il Governatore, Enrico Ottaviano il Papa, Marco Blanchi il porporato, Pietro Rebora, Matteo Milani, Martin Loberto e Viviana Simone gli altri interpreti.
Belle le canzoni, alcune cantate più volte dall’attore romano nei suoi spettacoli, sulle musiche originali di Gigi Proietti, Piero Pintucci e Luigi Magni riarrangiate da Massimo Fedeli, eseguite dal vivo da Massimo Fedeli al piano e fisarmonica, Diego Bettazzi al flauto e clarinetto, Stefano Ratchev al violoncello, Claudio Scimia al violino e chitarra e Alessandro Vece al piano, violino e mandolino.
Le scene di Fabiana Di Marco evocano l’atmosfera onirica e favolistica della Roma ottocentesca col supporto dei costumi e burattini di Santuzza Calì. Venata di poesia la regia di Giancarlo Fares che, alla riapertura del sipario, sospende sugli interpreti la relativa marionetta per ricevere, tutti insieme, gli applausi.