Il sipario si apre su un palco occupato da grandi pannelli decorati con motivi in stile medievale, entrano in scena quattro giovani attori impegnati in un provino per la parte dei servitori che si prestano al gioco nel ruolo di consiglieri di Enrico IV. Il «re» è un comune borghese che finge da anni di essere Enrico IV “re di Germania grande e tragico imperatore” (vissuto nel XI secolo), da non confondere, si badi bene, con Enrico IV di Francia! Nasce così, come una commedia nella commedia, una finzione mescolata alla realtà, il complesso e divertente atto unico ispirato al testo pirandelliano, la cui trama originale si snoda in modo creativo, come una sorta di fiume carsico che scompare e ricompare, fino a risolversi in un espediente scenico per raccontare, con tagliente ironia, la lucida follia vissuta come una farsa, la grottesca visione dell’umanità sospesa tra realtà e finzione, il tema della maschera che ciascuno di noi è costretto a indossare.
La storia è nota. Nel corso di una cavalcata in costume d’epoca, un giovane nobile subisce una grave caduta provocata dal Barone Tito Belcredi, suo rivale in amore. Reso “pazzo” dal trauma, il giovane assume l’identità di Enrico IV, di cui indossa il costume al momento dell’incidente e si rinchiude in un castello con alcuni servitori recitando la commedia dell’imperatore tormentato dalla scomunica di Gregorio VII e coltivando, nel suo animo, risentimento e desideri di rivalsa. Questo è l’antefatto dell’opera di Cecchi. L’azione inizia venti anni dopo, con la visita al castello del gruppo che un tempo aveva partecipato alla mascherata. In primo luogo la Marchesa Matilde, la donna amata dal finto Enrico IV, sua figlia Frida, Belcredi, che nel frattempo è divenuto l’amante di Matilde, il dottor Dionisio Genoni che con un esperimento vorrebbe tentare di guarire quello che credono un povero matto.
L’allestimento di Cecchi del capolavoro del drammaturgo agrigentino esprime, in chiave contemporanea, l’impossibilità di adattarsi alle insensatezze e alle ipocrisie del presente tra cui non manca, peraltro, un attualissimo richiamo alle “manipolazioni che chiamano comunicazione”, e fa riflettere sulla necessità di vivere una più rassicurante esistenza parallela nel “giuoco”, vedendo nella follia o meglio nel teatro, l’unico possibile luogo in cui rifugiarsi di fronte alle miserie morali e alla superficialità dei personaggi che ruotano attorno al finto Enrico IV, provocandone lo sdegno a tal punto che, in un ultimo gesto di ira, alza la mano sull’amico che l’ha tradito; ma è una mano armata di una spada da teatro, compiendo quindi un gesto che ha il valore di beffa.
Cecchi prende alla lettera, con una buona dose di sarcasmo, la formula “teatro nel teatro” che Pirandello ha sperimentato nella terza fase della sua produzione letteraria – in cui il teatro è l’unico vero protagonista – interpretando in modo istrionico una pièce che esalta la finzione come un gioco antagonista fra attori che in alcuni momenti dello spettacolo somiglia a una prova aperta, sino a giungere, in una continua alternanza tra apparenza e realtà, a un bel finale con il protagonista che, dopo l’uccisione del rivale esclama: “Alzati su, che domani abbiamo un’altra replica!”