La teoria della “crisi dell’io” dedotta da Luigi Pirandello dall’analisi dell’identità umana, trova la sintesi nel travaglio che attanaglia Vitangelo Moscarda, scatenato da una banale osservazione espressa una mattina da sua moglie.
L’annotazione che il suo naso è leggermente storto farà precipitare l’uomo in una crisi esistenziale che lo condurrà a ritenere che l’identità che percepisce di sé non corrisponde a quella che gli attribuiscono gli altri e, forse, non è nemmeno quella autentica, come le molte immagini prodotte da un caleidoscopio.
Un particolare fisico posto in evidenza, innesca dunque paradossalmente l’esigenza della ricerca dell’autentico sé. Lo stesso drammaturgo, in una lettera autobiografica, definì questo romanzo “il più amaro di tutti, profondamente umoristico, di scomposizione della vita”.
“La vita si apre come in un gioco di scatole cinesi, e nel fondo è l’essenza: abbandonare i centomila, per cercare l’uno, a volte può significare fare i conti con il nessuno” scrive Alessandra Pizzi che ha curato l’adattamento del romanzo (pubblicato nel 1925 dopo lunga gestazione) riscrivendolo sotto forma di monologo. Avrebbe voluto che Pirandello fosse vivo, afferma inoltre la regista, per mostrargli la grandezza della sua parola e l’attualità del suo messaggio. Da ciò è nata l’idea di una riscrittura che rendesse questo messaggio perennemente valido.
Oltre al successo di pubblico, lo spettacolo ha ottenuto, nella scorsa stagione, il Premio Franco Enriquez per la migliore interpretazione e la migliore regia e il Premio Delia Cajelli per il Teatro nell’ambito delle Giornate pirandelliane.
La messinscena della Pizzi è una sorta di psicodramma in cui l’attore occupa tutto lo spazio scenico con la voce e i gesti, dando corpo alla narrazione di una storia personale che si tramuta in un messaggio universale che coinvolge ogni uomo, in ogni tempo.
Enrico Lo Verso, davanti a una scarna scenografia di cubici sgabelli e cornici vuote sospese, è protagonista e voce narrante degli accadimenti che conducono Gegè alla presa di coscienza dell’impossibilità di rivendicare un’identità autentica.
Tutto bianco di abbigliamento e di chioma, simulacro di un’essenza evanescente che sfugge a una catalogazione, cattura con la mimica gestuale, con la modulazione vocale che intercala inflessioni dialettali siciliane, con una luce negli occhi e un’ironia che preludono alla follia di Gegè e rivelano il piacere dell’attore di interpretarlo.
Calda e profonda è la voce di Vitangelo, stridula e beffarda è la voce della moglie, insinuante e monotona è quella degli amministratori della banca della famiglia Moscarda, mentre prende forma l’idea che l’unico modo per recuperarla, quell’identità frantumata e azzerata, è la follia. Basterà dire la verità, sottraendosi ai condizionamenti delle convenzioni sociali.
Si è uno, nessuno e centomila: cioè si è se stessi, si indossa una maschera e si è quello che vedono gli altri, in un flusso perennemente dominato dal caos. L’unico modo per vivere è rinascere continuamente. Non è il nome a dare l’identità, quello è definitivo solo sulla lapide, da morto.