Novecento compie 25 anni e il suo autore, Alessandro Baricco, decide di portarlo in scena lui stesso per la prima volta. Il monologo teatrale, scritto nel 1994, era stato costruito per l’interpretazione di Eugenio Allegri sotto la direzione del regista Gabriele Vacis. «Dopo vent’anni di messe in scena, in ogni parte del mondo, con tutti gli stili, con artisti completamente diversi uno dall’altro, ho pensato che tornare un po’ alla voce originaria di Novecento potesse essere una cosa interessante, per me e per il pubblico. Un modo di riascoltare quella musica col sound che avevo immaginato per lei».
E in un brano come Novecento il sound è fondamentale. È il sound morbido, rilassato, da pianobar. Ricorda la colonna sonora dei vecchi film di successo, è un po’ blues, un po’ ragtime, soprattutto jazz. «Quando non sai cos’è, allora è Jazz». Ma il protagonista di questa storia supera il jazz, va oltre le categorie musicali, «quando ha voglia suona il jazz, ma quando non ha voglia suona qualcosa che è come dieci jazz messi insieme». Il protagonista si chiama Danny Boodman T. D. Lemon Novecento, fa il pianista – il più grande di tutti – ed è nato e cresciuto a bordo del Virginian. Ha un nome lungo, con una storia lunga, e una vita sull’oceano, senza mai scendere. «Da una nave si può anche scendere, ma dall’Oceano…»
Dall’oceano scendere è difficile, quando ci si è sempre vissuti sopra. Cullati per tutta una vita dalle onde, l’impatto con la dura terra può far paura. Vedere il mare dalla sponda, non esserne più circondato, potersene allontanare, può far paura. L’oceano è immenso, per chi non lo attraversa ogni giorno, ma non per Danny. «La terra, quella è una nave troppo grande per me». Sull’oceano, a bordo del Virginian, Danny ha il suo letto, il suo pianoforte, il suo mondo. Giù dal piroscafo, gli si aprono infinite possibilità, infinite opportunità di scelta e lui, lui è soltanto uno con un nome strano e lungo che prende una strada e la percorre. A pensarci, fa paura. Meglio suonarlo, l’infinito, che perdercisi dentro. Baricco l’infinito lo descrive così, con un oceano e un pianoforte, e lo smarrimento si sente, in quelle pagine.
Quando leggiamo un’opera teatrale, capita di chiedersi se la scena che ci immaginiamo è la stessa pensata dall’autore, se il tono che diamo a una battuta riflette lo stato d’animo del personaggio quale è stato concepito. Spesso le note e le didascalie non fugano ogni ragionevole dubbio e non è dato sapere la risposta. Quella di Baricco è un’intuizione intelligente, di dare voce alle proprie parole di inchiostro, togliendo gli spettatori più curiosi da ogni incertezza e cambiando, forse, in qualche punto, il peso attribuito dai lettori alle parole del testo. Un accento, un sospiro, qualche secondo in più di silenzio tra un enunciato e un altro. Ascoltarlo è come incontrare davvero i personaggi, conoscere la storia da chi l’ha vissuta e non per sentito dire. Da un narratore interno, come lo chiamano nei manuali di antologia. Il narratore interno di Novecento, a cui Baricco dà voce, narra le vicende di Danny Boodman T. D. Lemon Novecento e, alla fine, lo diventa. C’è scritto proprio così, «l’attore si trasforma in Novecento». Ecco, se vogliamo trovare una cosa che a Baricco riesce meno, in questo spettacolo, è trasformarsi nel personaggio. Ma lui non è un attore, e, come ha premesso già nel 1994, Novecento è «un testo che sta in bilico tra una vera messa in scena e un racconto da leggere ad alta voce»: in bilico può restare anche lo spettatore, nello scegliere tra la messa in scena di un attore e la lettura dello scrittore, godendosi in ogni caso un racconto dal sound jazz che è già letteratura.