Visionario e psicanalitico questo adattamento realizzato da Giancarlo Sepe per l’estro istrionico di Massimo Ranieri.
Dramma romantico d’amore distruttivo, Il gabbiano diede a Čechov l’opportunità di una riflessione sul teatro di cui riteneva necessario rinnovare la drammaturgia con nuovi spunti, pur comprendendo che le innovazioni avrebbero incontrato resistenze. E infatti Irina, affermata attrice teatrale (la madre) deride il testo scritto dal figlio Kostja come troppo innovativo e decadente, mostrando apprezzamento per lo scrittore suo amante Boris Trigòrin che ricalca antichi schemi rassicuranti, e anche Nina, di cui Kostja è innamorato, non comprende la sperimentazione e fugge dal suo amore come un gabbiano in cerca di libertà, preferendogli Trigòrin (Pino Tufillaro), anelando l’amore e il successo artistico.
Il lavoro incassò un clamoroso insuccesso al suo esordio a San Pietroburgo nel 1896, costringendo l’autore a ritirarsi. La rielaborazione operata da Stanislavskij e Dančenko per il Teatro d’Arte di Mosca ne decretò il successo, favorendo il ritorno di Čechov alla scrittura teatrale.
Scrive Sepe nelle note di regia: “Čechov voleva capire il perché dell’insuccesso e chiama l’unica persona affidabile, un critico musicale di origine francese, un uomo dalla cultura imperante nella Russia del secolo, la cultura francese, un uomo che conosceva l’eterna armonia dei sentimenti, Marcel … Musica e Čechov, un connubio che sa di favola e di miracolo, la commedia arriva a toccare il cuore come quando l’aveva scritta”.
Questo allestimento si distanzia dal contesto storico ottocentesco, ancorandosi a una realtà contemporanea inserita in una scenografia asettica (di Uberto Bertacca) dominata da una poltrona rossa e un pianoforte nero col quale Massimo Ranieri interloquisce musicalmente, al di là del quale lo spazio fisico assume connotazioni psichiche permeate di sofferenza e frustrazioni, tra meditazioni sull’arte e angosce esistenziali, fragilità emotive e incomunicabilità, scontri generazionali e male di vivere.
L’ottica di Sepe propone un bizzarro incastro metateatrale in cui il narratore Ranieri chiama in scena i singoli personaggi, e se stesso come proiezione del figlio adulto che si misura col suo doppio giovanile morto suicida e disprezzato dalla madre interpretato da Francesco Jacopo Provenzano, innamorato di Nina e amato da Mascia.
Il sentimento amoroso di Kostja viene osservato su due piani: sul primo quello non corrisposto per Nina e quello viscerale per la madre che lo ritiene inetto, sull’altro quello consapevole e metabolizzato del figlio adulto fantasma di se stesso che Ranieri incarna con vigore emotivo e passione evocativa di attore e chansonnier negli intermezzi musicali.
Irina Arcàdina è l’elegante e sensuale Caterina Vertova, figura materna conflittuale e lacerante. Bravi tutti gli interpreti nell’esprimere l’individuale tormento interiore, di cui si fa portavoce Mascia (Martina Grilli) vestita di nero che confida “porto il lutto per la mia vita”.
Ciascuno ancorato alla propria condizione, che si rifiuta di modificare. Nina (Federica Stefanelli), che tenta di inseguire il sogno dell’affermazione artistica, lo vedrà fallire come il gabbiano inerte, ucciso da Kostja, perché la libertà artistica, che ciascuno interpreta a suo modo, è minacciata.
Una rappresentazione che coniuga la leggerezza della poesia con la profondità della psicanalisi, in cui sentimenti ancestrali sono veicolati dai versi delle canzoni francesi Avec le temps (Leo Ferrè), La Foule (Édith Piaf), La chanson des vieux amants (Jacques Brel), Je suis malade (Gilbert Bécaud), Hier encore (Aznavour).