Diciannove attori in scena, diciannove. Per il teatro contemporaneo italiano una messa in scena con un cast così numeroso è ormai un evento più unico che raro. Massimo Popolizio dirige una delle pietre miliari della letteratura del genio di Pier Paolo Pasolini drammatizzata per la scena da Emanuele Trevi.
Ragazzi di vita è stato scritto nel lontano 1955, come attualizzare il variopinto e confusionario mondo sottostante le periferie e le borgate romane dei gruppi urlanti e “inguaiati” di sporchi ragazzini? La risposta più semplice è a volte la migliore, e questa riuscitissima messa in scena ne è la schiacciante prova.
Popolizio dirige un corpus di corpi, una coralità scenica e drammaturgica dalla quale di volta in volta si staccano dei nuclei per raccontare le vicende scritte con tanta dovizia di particolari da Pasolini. È un corpus di corpi che basta a sé stesso quasi del tutto anche a livello scenografico, fatta eccezione per alcuni elementi essenzialmente funzionali all’azione.
Trevi ha compiuto un’opera di riadattamento poetica ma realistica allo stesso tempo, rispettando appieno il sostrato del romanzo, dipingendo un mondo che pur non esistendo più in qualche modo è oggi ancora presente nei temi trattati. A tirar le fila di questo magma corale disordinato e problematico Lino Guanciale, narratore sui generis a tratti esterno alla vicenda, a tratti immerso in essa. Non è l’unico a interfacciarsi direttamente con gli spettatori in quanto “trascinatore” nelle atmosfere e nelle ambientazioni, anzi. La bellezza dell’adattamento di Trevi sta anche nell’aver lasciato ai personaggi la facoltà di parlar di sé stessi in terza persona dapprima e poi di sviscerare tutta la potenza narrativa prendendo parola direttamente in prima persona. Parola che in questa messa in scena è essenziale anche a livello linguistico, rispettando il romanesco di pasoliniana memoria mai esagerando, sempre incanalando quella cadenza e quell’espressività a servizio del testo.
I diciannove attori in scena recitano ruoli diversi, ora passeggeri di un tram in corsa ora spettatori al cinema, ora ragazzi festanti sul Tevere. Tutti tranne uno, er Riccetto (Lorenzo Grilli): fisico aitante ma allo stesso tempo un po’ emaciato, ricci biondi e una fortissima espressività. Sicuramente il personaggio più caratterizzato, il protagonista di molti dei racconti che si susseguono sulla scena dal primo in cui, caparbio, salva una rondinella dalle minacciose acque del fiume all’ultimo in cui invece semplicemente sceglie di non avventurarsi tra le agitate onde per tentare di salvare il povero Genesio.
L’adattamento di Popolizio/Trevi non risulta pesante o peggio ancora banale nemmeno nelle parti più difficili o scomode del romanzo, come la scena della lotta tra cani. Scrive Pasolini: «Quando antropomorfizzo la cagna ho voluto dire che molte volte i ragazzi purtroppo conducono la vita come animali» e come animali Popolizio li mette in scena, con tanto di vestiti neri con scritto sopra cane e cagna. È un teatro che non fa sconti, che sente di assolvere a un preciso dovere poetico nei confronti di uno dei più grandi intellettuali del secolo scorso. Non facenti parte del corpus letterario di Ragazzi di vita ma inserite a pennello contestualmente allo spettacolo sono la storia del “fusajaro”, il venditore di lupini al cinema innamorato di un maglione azzurro che sogna dalla vetrina di un lussuoso negozio (racconto non presente nella prima edizione), e il sonetto romano Er cane del grande poeta romano Giuseppe Gioacchino Belli.
Contorno importante sia drammaturgicamente che scenicamente, ancora una volta sintomo di una riuscitissima coralità, il vocio all’unisono che accompagna i momenti in cui è la musica la protagonista: diffusa come da un giradischi, ascoltata prima e cantata individualmente per poi sfociare in un coro a braccia spalancate.
Voglia di vivere, di divertirsi, di “mangiare” la vita nonostante la povertà, nonostante la fame, nonostante tutto. Perché al di là della difficile dimensione del sottoproletariato che aleggia su tutto e tutti c’è la speranza, viva e quasi carnale, presente fino alla fine nonostante la tragedia proprio nelle parole di Pier Paolo Pasolini che si fanno “corpo” attraverso l’omonimo libro, declamato direttamente dalla voce di Lino Guanciale. Ed è subito poetica nostalgia.