La stagione 2018-2019 di OPER.A 20.21 si chiude con La Wally di Alfredo Catalani, titolo a torto oggi poco frequentato. All’epoca, eravamo nel 1892, riscosse discreto successo con ben tredici repliche alla Scala, ma cadde lentamente nell’oblio. Non bastarono gli sforzi di Mahler che la diresse ad Amburgo nel 1893 e di Toscanini a fissarne le sorti nei cartelloni europei. Definita malignamente da Verdi “opera tedesca, priva di cuore e d’ispirazione”, La Wally – diminutivo di Walburga che si pronuncia Vàlli e non Vallì – è il risultato di un’idea precisa di Catalani, adattare il gusto wagneriano al melodramma italiano, coniugando musica e drammaturgia, principio cardine dell’ Oper und Drama di Wagner.
Senza dilungarci sulla genesi del libretto, tratto da Die Geier-Wally di Wilhelmine von Hillern, Heimatroman datato 1875 e ispirato alla pittrice Anna Steiner-Knittel, basti sapere che Illica e Catalani eliminarono gli episodi più crudi per concentrare l’azione sui moti interiori dei protagonisti. La regista Nicola Raab si concentra proprio su questa interiorità, ma anche sull’originaria protagonista della Hillern, rinunciando al calligrafismo per ritrovare la dimensione del “paesaggio dell’anima”. Wally è controcorrente, indipendente e coraggiosa nelle scelte, sorretta da una salda forza interiore nel suo passaggio da valligiana a borghese cittadina, in una società rigorosamente divisa tra uomini e donne. Lo sguardo introspettivo fissa i personaggi in duetti statici, li lascia distanti anche negli istanti più appassionati e strizza l’occhio a un oltre metafisico più immaginario che realistico. Se tale fissità, tipica del Regietheater, annoia, risultano invece ben congegnati il finale terzo, con una ricca dose di tensione, e in parte il quarto, in cui la regista rompe la convenzione dei “sacrifici sull’altare della supremazia maschile” come scrive Rubens Tedeschi in merito ai suicidi femminili nell’opera. Il bianco e il nero dominano l’intero allestimento, riferimento sia al primo adattamento cinematografico del 1921 che alla filosofia degli opposti.
Le scene di Mirella Weingarten sono fondamentali per comprendere l’intimismo di Raab. Niente cime innevate, niente casette di legno, bensì due grossi monoliti bianchi con scale interne, spostati in continuazione dal coro durante tutta l’opera a ricreare le mura di Hochstoff, la piazza di Sölden e l’abisso dell’Ache. Il light design di Clifton Taylor li valorizza egregiamente, soprattutto nei momenti salienti. Per tutto l’ultimo atto le due strutture si inclinano, quasi impercettibilmente, a simulare la valanga. I costumi di Julia Müer, curatissimi nelle loro fogge nere, si adeguano coerentemente alle idee registiche. Il pedone, vestito in abiti metà maschili e metà femminili, rimane però personaggio poco approfondito.
Arvo Volmer dirige l’Orchestra Haydn di Bolzano e Trento con mano felice, valorizzando al massimo il ventaglio delle emozioni che la musica di Catalani descrive. La lettura è particolarmente sinfonica, volta a valorizzare le tinte ora spigolose, ora morbide della partitura, e non perde di vista i cantanti.
Charlotte-Anne Shipley si disimpegna egregiamente nel ruolo eponimo, padrona di una voce impiegata con consapevolezza e tecnica soprattutto nel registro medio e alto, pur non distinguendosi per particolarità di timbro. Alcuni difetti di intonazione e salite all’acuto affliggono il Gellner di Ashley David Prewett, autore comunque di una prova risolta modestamente. A Ferdinand von Bothmer, tenore disomogeneo nell’emissione, spetta il non facile ruolo di Hagenbach. Corretti il Walter di Francesca Sorteni e l’Afra di Francesca Sartorato. Completano il cast Alessandro Guerzoni e Enrico Marchesini, rispettivamente Stromminger e Pedone.
L’Ensemble Vocale Continuum, preparato dal maestro Luigi Azzolini, interviene con professionalità e ottima presenza scenica.
Il pubblico omaggia l’intera compagnia con generosi applausi al termine della replica del 23 marzo.