La guerra è parte incancellabile del destino dell’umanità? È realisticamente possibile il passaggio da un sistema di guerre incessanti e di ingiustizia sociale a un sistema mutuale e pacifico?
Il canto della caduta di Marta Cuscunà, in scena giovedì 28 marzo alle ore 21:00 al Teatro Cantiere Florida di Firenze, pone punti interrogativi propri anche del nostro tempo: una risposta, possibile, sta forse fra le pieghe di un’antica storia ladina, il mito dei Fanes, un regno pacifico di donne, distrutto dall’inizio di un’epoca del dominio e della spada. Uno stormo di corvi animatronici e una piccola comunità di bambini-pupazzo superstiti, ispirati alla street art di Herakut, sono i nuovi compagni di scena della pluripremiata attrice e regista.
Il mito di Fanes è una tradizione popolare dei Ladini, una piccola minoranza etnica (35.000 persone) che vive nelle valli centrali delle Dolomiti, un ciclo epico e cui contenuti sono del tutto peculiari e diversi dagli altri miti ladini. Il mito di Fanes, infatti, parla della fine del regno pacifico delle donne e l’inizio di una nuova epoca del dominio e della spada. È il canto nero della caduta nell’orrore della guerra. La figura principale del racconto è Dolasilla, principessa dei Fanes, costretta da suo padre (chiamato “il falso re”), a diventare una Tjeduya: una guerriera. Ovvero la mano armata del potere. E sarà proprio questa scelta sciagurata del falso re, ossessionato dal possesso di ricchezze e dal potere sulle terre e sulle genti vicine, a causare la fine del regno matrilineare e del suo popolo. Il mito racconta che i pochi superstiti sono ancora nascosti nelle viscere della montagna insieme alla loro anziana regina, in attesa che ritorni il tempo d’oro della rinascita. Il tempo d’oro della pace in cui il popolo di Fanes potrà finalmente tornare alla vita.
Guardare indietro per andare avanti: “Quando ho iniziato a pensare che il mito di Fanes potesse essere il centro del mio nuovo lavoro teatrale, mi sono chiesta che senso ha, oggi, raccontare un antico mito ladino che parla di un mondo e di un immaginario così lontani dalla nostra contemporaneità. Le risposte che mi sono data, hanno radici in un saggio di antropologia di Riane Eisler: Il calice e la spada, in cui la studiosa statunitense indaga le strutture sociali che l’umanità si è data nel corso dei secoli e davanti a una continua epopea di guerre e ingiustizie, apre la riflessione a domande più che mai necessarie: la guerra è parte incancellabile del destino dell’umanità? Cosa ci spinge perennemente alla guerra invece che alla pace? Perché ci cacciamo e perseguitiamo l’uno con l’altro? La brutalità e il dominio dell’uomo sulla donna sono inevitabili? È realisticamente possibile il passaggio da un sistema di guerre incessanti e di ingiustizia sociale a un sistema mutuale e pacifico? Secondo Riane Eisler, le risposte per un futuro migliore potrebbero affondare le radici in quel punto nella preistoria della civiltà europea di cui parla l’archeomitologa Marija Gimbutas, in cui la nostra evoluzione culturale sarebbe stata letteralmente sconvolta.” L’approccio dell’archeomitologia è multidisciplinare e unisce l’archeologia descrittiva alla mitologia comparata, al folclore, all’etnologia storica e alla linguistica. Marija Gimbutas, nel saggio Il linguaggio della Dea, ricostruisce un mondo perduto che corrisponde all’Europa neolitica in cui la presenza del femminile sarebbe stata centrale nella visione del sacro e della struttura sociale. Un’Europa antica molto diversa da quella che ha prevalso successivamente, in cui le società erano prevalentemente egualitarie e pacifiche; il rapporto fra i sessi equilibrato e paritario; le donne potevano svolgere funzioni sociali importanti di capo-clan e, nelle vesti di sacerdotesse, potevano esercitare autorità in ambito religioso. Un tempo antico in cui Dio era una femmina. Secondo la Gimbutas, i nostri antenati avrebbero coltivato una forma di pensiero diversa rispetto a quella patriarcale caratterizzata dal predominio del sesso maschile su quello femminile e dalla sopraffazione dei popoli più deboli. A sostegno delle sue tesi, la studiosa lituana porta le tracce che ancora si possono trovare nelle leggende, nei miti, nel folklore, nella spiritualità delle ere successive che conserverebbero la memoria di questa cultura neolitica. Attraverso l’antico mito lo spettacolo vuole portare alla luce il racconto perduto di come eravamo, di quell’alternativa sociale auspicabile per il futuro dell’umanità che viene presentata sempre come un’utopia irrealizzabile. E che invece, forse, è già esistita.
Teatro visuale: Mettere in scena Il canto della caduta significa raccontare la guerra cercando un modo per varcare i confini della irrappresentabilità dell’orrore che essa porta con sé. Nel primo spettacolo della trilogia sulle resistenze femminili, E’ bello vivere liberi!, l’autrice ha sperimentato come il teatro visuale e i pupazzi potessero evocare l’orrore indicibile dei lager nazisti. Questo progetto cerca una strada simile per aprire le porte a un racconto diverso da quello a cui ci hanno assuefatto i telegiornali in cui la distruzione bellica è talmente esibita ed esposta da risultare ormai inoffensiva. La scena iniziale è la scena della fine: un campo di battaglia. Quello che resta degli eserciti, diventa il banchetto dei corvi, ormai svogliati per la troppa abbondanza. I corvi si parlano, prendono le parti del coro, descrivono la battaglia, il frantumarsi di ondate di uomini che seminano corpi a pezzi. Indugiano sulla meraviglia che accompagna la carneficina, l’ostinato darsi la morte fino al culmine dello sterminio. La guerra non si vede mai sulla scena. Eppure c’è, restituita al pubblico dal punto di vista degli unici personaggi che ne traggono sempre vantaggio.
Lo spettacolo prevede la presenza in scena di personaggi meccanici progettati e realizzati dalla scenografa Paola Villani, che si inseriscono nella tradizione del teatro di figura ma ne scardinano l’immaginario in quanto la loro movimentazione si basa su tecnologie applicate in animatronica e sull’utilizzo di componentistica industriale per realizzarle. Il dispositivo costruito produce la movimentazione di un sistema complesso di leve a cavo attraverso dei joystick meccanici manovrati dalle mani dell’unica attrice in scena.
“Vorrei cercare di rendere visibile ciò che caratterizza i personaggi del mito e che porta alla nascita dell’ideologia della sopraffazione: il tradimento della natura umana e del proprio ruolo in favore della spada e del profitto individuale.”
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Marta Cuscunà si forma con Joan Baixas, con cui approfondisce i linguaggi del teatro visuale e José Sanchis Sinisterra, per lo studio della drammaturgia. Nel 2006 debutta in Merma Neverdies, spettacolo con pupazzi di Joan Mirò e regia di Joan Baixas, prodotto da Elsinor-Barcellona in esclusiva per la Tate Modern Gallery di Londra. Nel 2007 è in scena con Indemoniate, spettacolo di Giuliana Musso e Carlo Tolazzi, regia di Massimo Somaglino. Nel 2009 torna a lavorare in Spagna nello spettacolo Zoé, inocencia criminal, prodotto dalla Compañía Teatre de la Claca di Barcellona, diretta da Joan Baixas e debutta con lo spettacolo inedito È bello vivere liberi! Progetto di teatro civile per un’attrice, cinque burattini e un pupazzo, del quale è autrice e interprete. Nel 2011 partecipa a …Think only this of me… progetto inedito per attori e musicisti della Guildhall School of Music and Drama di Londra, diretto da Christian Burgess. Nel 2012 realizza il progetto inedito La semplicità ingannata. Satira per attrice e pupazze sul lusso d’esser donne. Nel 2013 realizza per il Gaypride di Vicenza il reading The beat of Freedom e in seguito interpreta Glauce in La città ha fondamenta sopra un misfatto, riscrittura teatrale della Medea di Christa Wolf, scritta e diretta da Giuliana Musso. Nel 2014 debutta con Wonder Woman, il reading scritto e interpretato insieme a Giuliana Musso e Antonella Questa, partendo dall’inchiesta di Silvia Sacchi e Luisa Pronzato, giornaliste del Corriere della Sera, che esplora il tema dell’indipendenza economica femminile. Nel 2015 debutta con Sorry, boys terzo spettacolo inedito della trilogia sulle Resistenze femminili. Vincitrice del 2018 Premio della Critica – ANCT, nel 2010 e 2016 è finalista al Premio Ubu come miglior attrice/performer, nel 2013 Premio Franco Enriquez e Premio Città Impresa, Nel 2012 Premio Last seen per il miglior spettacolo dell’anno e Menzione d’onore al Premio Eleonora Duse.
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Giovedì 28 marzo ore 21:00 Festival Materia prima
IL CANTO DELLA CADUTA Liberamente ispirato al mito del Regno di Fanes
di e con Marta Cuscunà
progettazione e realizzazione animatronica Paola Villani
assistente alla regia Marco Rogante
progettazione video Andrea Pizzalis
lighting design Claudio “Poldo” Parrino
esecuzione dal vivo luci, audio e video Marco Rogante
costruzioni metalliche Righi Franco Srl
partitura vocale Francesca Della Monica
assistente alla realizzazione animatronica Filippo Raschi
distribuzione Laura Marinelli
co-produzione Centrale Fies, CSS Teatro stabile d’innovazione del Friuli Venezia Giulia, Teatro Stabile di Torino, São Luiz Teatro Municipal | Lisbona
in collaborazione con Teatro Stabile di Bolzano, A Tarumba Teatro de Marionetas | Lisbona
residenze artistiche Centrale Fies, Dialoghi– Residenze delle arti performative a Villa Manin, São Luiz Teatro Municipal, La Corte Ospitale
con il contributo del Centro di Residenza dell’Emilia-Romagna L’arboreto-Teatro Dimora | La Corte Ospitale
sponsor tecnici igus® innovazione con i tecnopolimeri, Marta s.r.l. forniture per l’industria
Marta Cuscunà fa parte del progetto Fies Factory di Centrale Fies
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TEATRO CANTIERE FLORIDA
Via Pisana, 111r Firenze
+39 055 7135357