Dopo una selezione di oltre trecento testi di corti teatrali in gara, la sera del 2 marzo 2019 al Teatro Nuovo San Paolo di Roma si è svolta la finale della terza edizione del concorso nazionale di nuova drammaturgia “BELLI CORTI” inaugurata il 26 gennaio.
Per la prima volta quest’anno è stata inserita una sezione ‘monologhi’, il cui atto conclusivo, appena una settimana prima, aveva proclamato vincente “Puro” di Davis Tagliaferro, mettendo d’accordo pubblico e giuria. “Puro” è la narrazione della realtà italiana vista con lo sguardo disincantato e fuori dagli schemi di un ragazzo d’oggi: metafora dell’innocenza, delle incongruenze di un paese in affanno e di una innocenza frettolosamente smarrita. Una menzione speciale era andata a Domenico Cacciola per “Il liquidatore” e Federica Di Lascio infine aveva ottenuto il premio per la migliore interpretazione ne “Il peso del cibo” di Antonio Casto.
La Direzione artistica del teatro con questa iniziativa soggetta a bando intende promuovere e valorizzare testi teatrali inediti e soprattutto originali di autori che si avvicinano all’arte del teatro, si confrontano con la realtà contemporanea sperimentando in modo propositivo ed arguto e mettono a disposizione quel valore aggiunto di temerarietà che aiuta ad innovare e distinguersi. È un’avventura esaltante in un panorama spento che reclama idee e soffre da tempo il ricambio generazionale.
La messinscena è affidata ad attori e registi che frequentano i corsi interni di laboratorio avanzato di recitazione.
Anche in questa occasione a presentare l’evento è stata l’attrice Lisa Recchia, affiancata dall’esagitato Francesco Nicolai, attore e regista.
Al termine della kermesse conclusiva che riproponeva i cinque corti finalisti, una giuria composta da professionisti del settore e critici teatrali ha consacrato ‘R-UMORE’ di Giuseppe Pipino miglior testo della manifestazione. Il pubblico presente in sala ha dato la preferenza all’effervescente corto ‘Le due mele’ di Aldo Villa, interpretato da Sara Valenti che si accaparra il premio della giuria per l’esilarante interpretazione di Eva. Due gli attori premiati dalla giuria esterna, meritevoli di menzioni speciali: Luca Scaffidi che ha interpretato un Adamo che fa il gregario e porta a casa il terzo sigillo per la medesima opera, e l’istrionico Francesco Casella che nell’omonimo script incarna letteralmente, e non in senso figurato, il “Fegato”.
Queste nel dettaglio le opere giunte in finale e rappresentate.
——
Sinossi
1) ‘Maria, Marì’ di Gianni Fusco. Regia di Matelda Sabatiello, con Daniela Calvani e Patrizia Guardati.
Introdotto dalla celeberrima melodia immortalata da Roberto Murolo, è il dialogo ripetitivo fra due anziane signore che attendono il proprio turno in un ambulatorio medico del napoletano.
Si tratta di un siparietto divertente dal sapore agrodolce che contiene le confidenze malinconiche di Maria e Maria, due anime sole, in preda ad incipiente demenza senile, accomunate dal destino oltreché dal nome. Provano a raccontarsi i rispettivi disagi quotidiani, tra presente e passato, ma la memoria non le assiste. Imbastiscono discorsi che interrompono per poi riprenderli, sempre uguali, e così senza fine. La pressione alta sembra essere un comun denominatore che ben presto si rivela il minore dei mali. Conducono i residui scampoli di esistenza in ristrettezze economiche, abbandonate da figli egoisti e scellerati, espropriate di ogni conforto umano che ne attenui la solitudine terminale.
Quell’appuntamento ha il calore di un ritrovo familiare, il suo tepore riscalda, oltre allo spirito, anche le membra delle due donne sfibrate che hanno rinunciato a tutto perché non possono consentirsi neanche il necessario. È un luogo dell’anima, è un pretesto per sentirsi ancora vive e vale ben oltre l’attesa di una visita che non avrà alcun senso né fornirà alcun responso diverso dai soliti.
Una di loro (Patrizia Guardati) è flemmatica, mite e a suo modo riservata, animata da insistente curiosità. L’altra (Daniela Calvani) è bizzarra, più scontrosa e irascibile, ma ben disposta poi, tra un anello all’uncinetto ed un sospiro, ad ogni rivelazione su richiesta, senza reticenze, comprese quelle più piccanti e imprevedibili. Fino agli esiti estremi, in cui comico e grottesco riverberano la dimensione del tragico.
L’autore illustra mestamente, con rassegnata ironia, la condizione precaria e spesso drammatica di persone fragili e indifese come gli anziani, in una società amorale che soffoca i valori della vita sacrificandoli al profitto.
Brave le interpreti. Il tempismo di Patrizia Guardati fa il pari con la verve ciarliera della Calvani. Si chiude a passo di danza mentre Dean Martin intona ‘Oh Marie’, perché il ballo è un elisir miracoloso che spazza via le preoccupazioni e allunga la vita.
2) ‘Addio, ascelle!’ di Giulia Sara Borghi. Regia di Michele Romanelli, con Vanessa Ricciardi e Marialida Testa.
Alice (Marialida Testa) è intenta a scrivere le memorie della sua breve esistenza. Lo fa in modo stravagante ed inconsueto, mettendo al centro della narrazione i momenti più significativi, piacevoli, scomodi o anche scabrosi, comunque vissuti, che hanno avuto per protagoniste le diverse parti del suo corpo. Dopo piedi, lingua e sopracciglia, è la volta delle cavità ascellari.
È una vera e propria volontà testamentale che sottende un progetto lucido che si dispiega nel corso dell’appassionato incontro con la sorella maggiore Serena (Vanessa Ricciardi), una resa dei conti che chiarisce a poco a poco la natura disperata e consapevole di quella scelta.
Alice è affetta da una malattia degenerativa che ne sta fiaccando le residue energie. Non c’è più molto tempo e va impiegato al meglio. Ogni frammento di vita, ogni attimo, ogni porzione del suo essere viene nobilitata nel ricordo dell’adolescenza e quei manoscritti sono un atto di affetto profondo, di appartenenza, di riconoscenza infinita. Prima di andarsene via, prima dell’ultimo treno che le permetterà di staccare la spina. Ogni altra distrazione presente è effimera e viene rimossa. Non può bastare nemmeno la reazione risoluta che sa di tenera implorazione da parte di Serena per distoglierla da quel proposito a lungo meditato.
Dove sono tutti? Dov’è finito quell’amore gentile e generoso che l’aveva illusa e prometteva per sempre? Si chiede Alice. Tutti quelli che non sono costretti ad assisterla per obbligo familiare… Dove sono? …E rimane, questo, il vuoto più grande.
Bel lavoro, con molti spunti di riflessione che il rapporto col proprio corpo innesca. Il tema delle ascelle, che nell’immaginario rappresentano un elemento di scarso pregio e un po’ tabù, è ovviamente il movente per evocare considerazioni ben più complesse. Sulla malattia, sul senso della vita, sulla dignità della persona, sulle nuove forme di malessere che la società ‘liquida’ disattende senza risposte, sulle urgenti necessità di chi soffre, complice una legislazione carente e ipocrita.
Giulia Sara Borghi è una giovane scrittrice di talento e la sua storia, intrisa di presentimenti e sensazioni forti, è un crescendo di emozioni penetranti e di interrogativi con brivido.
3) ‘Fegato’ di Angelo Sorino. Regia di Sofia Martuscelli, con Emiliano Carnevale, Francesco Casella e Manuele Lancia.
È una vicenda surreale che mette a confronto Stefano (Manuele Lancia), un giovane ambizioso in carriera, ed il suo fegato, Pasquale (Francesco Casella), che si materializza davanti a lui quando, stufo di essere bistrattato dagli eccessi alimentari e nevrotici del suo padrone, finalmente decide di darci un taglio e iniziare le presentazioni. Quello che chiede quel povero organo è solo un po’ di collaborazione, al fine di moderare abitudini squinternate per evitare di collassare insieme.
È un dialogo spassoso e grottesco in cui le battute fra i due si susseguono senza soluzione, provocate dal risentimento di un fegato ‘espiantato’ ma in grande spolvero, che si esprime in vernacolo napoletano e mette il turbo di una comicità devastante. Lo sbigottito Stefano è tramortito dall’assalto all’arma bianca di quell’essere ostile che ha vita propria e sentimenti contrastanti. Il dialogo, tra il patetico e l’epatico, non ha freni. Stefano è in crisi di identità e il malcapitato fegato, oltraggiato di giorno da fritture e intrugli e di notte da eccessi libertini, ha perso ogni dignità. Alla fine anche il cuore (Emiliano Carnevale) viene scomodato, entrambi gli organi si coalizzano e, sotto attacco simultaneo, generano il blackout definitivo.
La morale della divertente affabulazione è inquietante. Ognuno dovrebbe conoscere i propri organi e le loro funzioni, per rispettarli al meglio anziché rimpiangerli quando è ormai tardi.
Convincenti gli interpreti, con un superlativo Francesco Casella nel ruolo dell’organo incriminato. È un mattatore autentico, dall’eloquio veemente e dalla napoletanità travolgente, dotato di prodigioso senso della scena, gestualità e mimica da attore comico consumato. A lui va una menzione speciale della giuria.
4) ‘R-Umore’ di Giuseppe Pipino. Regia di Micaela Seganti, con Simone Carchia e Simona Leone.
È la storia di una fine. Un uomo (Simone Carchia) e una donna (Simona Leone) seduti accanto sul divano eppure divisi da una barriera di incomunicabilità senza appello. Lei è pervasa da una agitazione inconsueta, mentre lui imperturbabile legge il giornale. Uno scambio accanito di banalità sfocia nell’alterco, il nervosismo rompe gli argini, ogni rumore, ogni odore avvertito provoca battibecco stizzito, e scoperchia, insieme alle fobie, rancori a lungo dissimulati. Il confronto è aspro e senza esclusione di accuse feroci prima di un timido armistizio tentato dal giovane che non servirà a fare pace; la donna, ormai lontana con il cuore e con la mente, ha già deciso per entrambi.
Ogni vicenda umana contiene sempre un inizio e una fine, favoriti da episodi a cui contribuiamo con scelte e decisioni, o anche, più naturalmente, generati dal destino che apre e interrompe il cerchio. È un processo irreversibile che appartiene alla condizione umana. La vita non è come una pellicola che puoi riavvolgere a piacimento per fermare l’attimo che maldestramente o per avversità della sorte non hai potuto trattenere. Siamo condannati alla morsa del tempo che passa, al riemergere di un passato metatemporale, bello e brutto che sia, comunque malinconico e perduto per sempre. L’agonia della finzione non può blindare i sentimenti e nulla può essere come prima. L’accettazione è il salvavita rigenerante ma serve coraggio.
La prima parte di ‘R-Umore’ è a volte prolissa, fuorviante, rischia di banalizzare il tema, ma poi il confronto dialettico prende consistenza. La narrazione diviene fluida, acquista vigore, la tensione drammatica lievita e culmina nel macabro finale che celebra la dolorosità del fallimento. L’azzardo finale, tra realismo crudo e metafora della fine, è coup de théâtre enigmatico quanto intuizione felice. Alla fine di un amore soffrirà soltanto un cuore mentre l’altro se ne andrà. È il refrain di una vecchia canzone ed è anche l’artificio che risolve il dramma.
Considerando la giovanissima età dell’autore, Giuseppe Pipino, poco più che ventenne, alla sua prima esperienza teatrale, il risultato è oltremodo incoraggiante; il premio come miglior short story è ampiamente meritato e non deve sorprendere. L’impronta è nitida, se pure acerba, e si intravedono sviluppi da esplorare e valorizzare. Bravi gli attori e Simona Leone nutre il personaggio di intensa personalità.
5) ‘Le due mele’ di Aldo Villa. Regia di Martina Barboni, con Sara Valenti, Luca Scaffidi e Andrea Gasperini.
È la rivisitazione in tono burlesco della biblica Creazione e del peccato originale. Eva (Sara Valenti) è alle prese con un deprimente Adamo (Luca Scaffidi), ancora amorfo, inadeguato quanto basta per mettere a dura prova la sopportazione della futura progenitrice. Sin dall’esordio sulla faccia della terra ha un bel da fare per spiegare all’ ottuso compagno i fondamentali della maieutica e della semantica.
Eva è un esemplare alquanto difforme dallo stereotipo sottomesso e verginale della Genesi. Coatta e dominatrice, irriverente e ‘fanatica’, spregiudicata e scaltra, ha assimilato prima del tempo la lezione e si è rifatta il look. Mena le danze a piacimento esibendo un eloquio cantilenante che stordisce il frastornato Adamo, ridotto a omuncolo patetico, ignavo, ritardato.
Il tema della mela e della conoscenza, del diavolo tentatore con sembianze di serpente (Andrea Gasperini) è da sempre materia imbarazzante, trasformata per l’occasione in una demenziale, irriverente parodia che sconvolge ogni ermeneutica e innerva la narrazione di sperticante, irrefrenabile comicità. Gli alberi diventano due, come le mele.
Non resta che barare. Eva ritorna sui suoi passi e fa ammenda di sé e della sua colpa. Andarsene dall’eden senza cogliere nessuna mela evitando sanzioni e ricadute da libero arbitrio. La strategia di Eva per evitare la maledizione e il ricatto e alimentare la speranza in un mondo più giusto, denso di pace e di amore, appare percorribile ed è condivisa, ma bisogna fare i conti con la corretta applicazione delle istruzioni. Sarà un flop poco ‘originale’ e maldestro di cui il genere umano sconta ancora gli esiti nefasti.
Il testo è molto intrigante, ben strutturato e di evidente teatralità.
Peccato e rimorso sono sentimenti che sotto ogni latitudine fin dalla notte dei tempi angosciano l’umanità. Libero arbitrio e autodeterminazione sono concetti che esprimono la paura dell’ignoto, l’ansia di conoscenza, di libertà.
Il merito di questa pièce è di averlo raccontato con ironia e sarcasmo, come scomoda carezza al contempo lieve ed indulgente, e di averla messa in scena impiegando giovanissimi protagonisti che hanno assecondato con straordinaria freschezza lo spirito del testo.
Bravissima Sara Valenti, la cui recitazione è una litania disartrica che stravolge ogni schema accademico, è un rullo che ammalia con tonalità ripetitiva e binaria alternata tendente all’aggressivo; un fenomeno spiazzante, non replicabile. Talmente convincente nel ruolo di un’Eva sui generis, dissacrante e impertinente, che vince il premio con alto gradimento da parte dei giurati.
Anche il bislacco Adamo, alias Luca Scaffidi, è assolutamente a suo agio, dai tempi comici appropriati, perfetto nel ruolo di spalla. Per lui una menzione speciale della giuria.
Completa il goliardico trio quel diavolo di serpente, eccentrico e smaliziato, che è Andrea Gasperini, insofferente alle attese e alle discussioni logorroiche di Eva. Anche lui una piacevole rivelazione.
La regia è di Martina Barboni, presenza costante e preziosa di questo giovane teatro polivalente; prende per mano i tre moschettieri e agevola l’impresa.
Infine i componenti della giuria: Il presidente Marcello Isidori, critico, Silvia Scalamonti critico, Flaminio Boni critico, Francesco Di Brigida critico, Sebastiano Biancheri giornalista e critico, Lorenzo De Liberato autore e regista, Pier Lorenzo Pisano autore e regista, Michele Di Vito autore, Camilla Ribechi autrice, attrice e regista, Massimo De Giorgio attore e regista.