Tratta dall’omonima versione di Oscar Wilde, la Salomè di Richard Strauss, andata in scena al Teatro Comunale di Bologna, fu rappresentata per la prima volta nel 1905. L’opera non ha sempre avuto vita facile proprio per la scelta del compositore di esasperare l’ordito strumentale dando all’orchestra un rilievo tale da farla diventare protagonista stessa del racconto, a tal punto che per molti viene considerato un poema sinfonico più che un’opera lirica.
Salomè, figlia di Erodiade, si innamora di Jochanaan (Giovanni Battista) imprigionato in una cisterna. La giovane donna convince, con il suo fascino, Narraboth, capitano della guardia reale che lo sorveglia, a mostrarle il prigioniero e quando lo vede la donna è subito sedotta dal carisma del profeta, dalla voce, profonda, dal corpo possente. Al contrario Jochanaan la ripudia e inveisce contro i peccati di Erode e soprattutto della madre, Erodiade. Tanto la donna è catturata dalla prestanza fisica e spirituale dell’uomo quanto Jochanaan ha parole di disprezzo nei confronti di Salomè e della madre che l’ha generata. In lei cresce il desiderio di toccarlo, accarezzarlo, baciarlo così come nell’uomo imprigionato cresce il rifiuto e il disgusto per la donna che allontana da sé. A nulla servirà la maledizione che Jochanaan rivolge a Salomè tornando nella sua prigione. La donna non pensa ad altro che a possedere l’uomo e per farlo sfrutta ancora una volta la sua sensualità corrompendo Erode, segretamente attratto dalla figliastra, che le promette qualsiasi cosa ella desideri in cambio di un ballo. E così, dopo la danza dei sette veli, la giovane donna chiede in cambio la testa di Jochanaan per vendicarsi del profeta che non ha voluto nemmeno guardarla negli occhi.
La figura di Salomè ha attratto nel corso dei secoli molti scrittori e pittori proprio per il fascino di questa fredda donna incantatrice, disposta a tutto pur di ottenere ciò che desidera. L’opera ha un fascino imperituro perché indaga nel profondo degli abissi umani restituendo un dipinto denso di lussuria e sadismo in cui “il mistero dell’amore è più grande che il mistero della morte”.
La regia di Gabriele Lavia che calcò le scene del Teatro Comunale di Bologna già nel 2010 e adesso ripresa da Gianni Marras, riesce perfettamente a entrare nelle crepe umane dalle quali Salomè ha origine. Nella scena predomina il rosso: rosso come il sangue, rosso come la passione che brucia il cuore di Salomè. La luna fa da sfondo alle vicende una luna a volte piena mentre in altre scene assume la forma come di una mannaia. Il terreno sul quale gli attori si muovono e disconnesso, incrinato e vacilla proprio come i sentimenti dei protagonisti in equilibrio tra le fenditure dell’anima. Nel palco ci sono vari dislivelli, Jochanaan proviene dal basso, mentre dall’alto scende la gabbia di ferro che lo imprigiona. Ed è dalla frattura del terreno che viene fuori la testa gigantesca (alta quasi tre metri e mezzo) di Jochanaan, che in quest’occasione non è servita su un piatto d’argento coma la tradizione vuole, ma giganteggia sul palcoscenico e sarà la protagonista, insieme a Salomè, dell’ultimo monologo della giovane donna pieno di compiacimento e lussuria. Ottima anche la direzione artistica Juraj Valčuha che risulta elegante e raffinata, in grado di esaltare la partitura e dare ampio risalto alla magnificenza dello spartito pensato da Richard Strauss.