Autrice: Lisa Moras
Attori: Caterina Bernardi, Marco S. Bellocchio
Scenografia e costumi: Stefano Zullo
Musiche e disegno luci: Alberto Biasutti
Regia: Lisa Moras
Produzione: Teatro Comunale Giuseppe Verdi, Pordenone, col sostegno di Fondazione Friuli.
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In Senza parlare Lisa Moras affronta il tema della relazione e della comunicazione con una persona disabile facendo leva su un’invenzione puramente teatrale. La protagonista della pièce, la giovane Sara, affetta da paralisi cerebrale di tipo spastico e affidata al fratello Marco, non viene rappresentata realisticamente come persona pressoché muta e immobile sulla sedia assistita, ma come creatura che può agire ed esprimersi autonomamente sulla scena. L’interazione tra Marco e Sara si dispiega quindi sul palcoscenico in modo sia sincronico che distanziato dal momento che Marco si rapporta alla sorella come se questa fosse effettivamente paralizzata sulla sedia, mentre la Sara immaginaria si muove e parla sulla scena manifestando liberamente la sua vita interiore. Tale invenzione scenica ha il pregio e il fascino di sondare il tema di fondo di Senza parlare che è il silenzio, inteso come pienezza esistenziale ed espressiva del soggetto disabile difficilmente comprensibile anche per chi, come un familiare, dovrebbe possedere naturalmente le facoltà e la sensibilità per accostarcisi. Sara, quindi, che inizialmente si paragona al mare che “non ha parole” ma in cui “c’è sempre un suono”, al termine della pièce entra in sintonia con Marco il quale finalmente scopre che nella sorella vi è la “voce del silenzio, come il mare”, un silenzio che “lo salva ogni giorno” perché “gli ricorda quanto basti poco per smarrirsi”. Per giungere a ciò, però, il fratello maggiore ha dovuto superare il rifiuto covato fin dall’infanzia per la malattia manifestatasi nella sorella fin dalla tenera età, riconoscendo la noncuranza e superficialità del proprio atteggiamento nei suoi confronti perpetuatosi fino al giorno del diciottesimo compleanno della sorella che è anche quello in cui Marco diviene suo tutore.
La regia di Lisa Moras ha intersecato i due piani rappresentativi della vicenda, quello iperreale del mondo interiore di Sara e quello della quotidianità della vita in comune tra i due fratelli, sviluppando, tra l’altro, l’interazione tra la scenografia di Stefano Zullo, una rete metallica posta dietro un lungo tavolo, su cui sono appesi oggetti significativi della vita presente e passata dei due protagonisti, e il disegno luci di Alberto Biasutti (anche autore delle suggestive musiche elettroniche) che ha sfruttato quella stessa rete come schermo di proiezione concentrandosi sui singoli oggetti o, alternativamente, ricreando un magico teatrino delle ombre animato da piccoli plastici lignei manovrati a mano da Marco e dalla presenza della stessa Sara. E così, le immagini del film preferito di Sara, Colazione da Tiffany, dallo schermo del tablet che Marco è solito attivare di fronte a lei per accontentarla e poter egli stesso dedicarsi alle proprie occupazioni, si trasferiscono sulla maglietta, il portafoto, il bambolotto, il quaderno ecc., sospesi sulla rete, esaltando, per analogia con il mood tenero e malinconico della vicenda della Holly di Audrey Hepburn, il valore memoriale di quei “reperti” depositari di un investimento affettivo mai sopito da parte di Sara; finché ella stessa non si trasforma in protagonista, davanti a quella stessa rete su cui scorrono le ombre dei manufatti riproducenti altri frammenti decisivi del loro vissuto (le lettere dell’alfabeto attraverso cui Sara si esprime digitandole sulla tastiera speciale, i soldatini che anni prima Marco si era rifiutato di usare per giocare insieme alla sorella) all’interno di un mondo onirico per la prima volta condiviso con Marco e destinato a divenire il substrato, implicito e non più occultato, del loro rinnovato rapporto basato sulla reciprocità comunicativa.
Gli attori hanno reso con naturalezza e autenticità le parti dei due protagonisti, evitando ogni forma di convenzionalità e retorica, più o meno sentimentale. Caterina Bernardi ha messo a nudo l’interiorità di Sara attraversandone con immediatezza e semplicità la ricca gamma di emozioni e pensieri, introducendo in tal modo lo spettatore in un universo in cui ogni slancio comunicativo e moto dell’animo assumono una vibrazione e un’intensità vitale di speciale valore. Ha reso evidente il passaggio in Sara dall’adolescenza all’età adulta frutto di una nuova consapevolezza e di una maturità scaturite dall’affrancamento da una condizione di tendenziale isolamento; ma soprattutto è riuscita a rendere la duplicità del vissuto della ragazza disabile, costantemente reattiva nei momenti di dipendenza dagli altri, ma sempre in possesso di una autonoma identità di persona. Marco Bellocchio ha progressivamente svelato lo spessore del personaggio di Marco con una misurata gradazione di differenti approcci interpretativi: dall’iniziale faciloneria di chi riveste forzatamente il ruolo di “balia”, alla successiva crisi di coscienza segnata dal dolore e dal senso di colpa, alla finale gioia per la ritrovata intesa e comunione d’affetti con la sorella, associata alla scoperta, espressa con toni di assorta riflessività, della profondità e grandezza d’animo di Sara, determinante per la maturazione esistenziale di Marco.