È facile capire perché Anna Bolena, tornata in scena al Teatro dell’Opera di Roma per poche date quasi sold out, sia stato il primo vero grande successo internazionale di Gaetano Donizetti nel 1830.
Al Costanzi l’Anna Bolena tornava solo per la terza volta (dopo il 1977 e il 1979) e stavolta in una pregiata e inusuale versione integrale realizzata in coproduzione con il Teatro di Vilnius.
Con una durata che sfiorava i tempi wagneriani, l’opera di Donizetti, titolo di bel canto della stagione romana, ha riscosso notevole successo: la musica della Bolena è sempre bellissima e avvincente fra arie, duetti (meraviglioso il duetto fra le regine) e terzetti, senza dimenticare che si innesta sull’audacia e la forza drammaturgia del bel libretto di Felice Romani, sempre credibile e carico di tensione nel tratteggiare in una manciata di situazioni chiave gli ultimi giorni di vita di Anna Bolena.
È lei la protagonista, la seconda delle sei mogli di Enrico VIII, sacrificata dal cuore capriccioso del re che per lei aveva divorziato da Caterina D’Aragona, ora invaghito della giovane ancella della sovrana, Jane Seymour, divisa fra l’amore e il senso di lealtà nei confronti della sua signora.
La storia di Anna Bolena è travolgente perché è un dramma storico che racconta con forte modernità la parabola discendente di una donna vittima della volubilità del re e che scivola nella follia prima di morire. È la storia di una donna che continua a essere vittima di una società maschilista, di una donna che resta sola, tradita dal consorte e dalla sua ancella (seppur fra malcelati sensi di colpa), ma che riesce a mantenere intatta la sua dignità di regina fino alla morte.
Una storia sempre attuale che non può non solleticare le emozioni e i sentimenti del pubblico avvinto non solo dalla bellezza della musica, ma anche dalla forza dei personaggi, un re egoista e due regine travolta da uno strazio tanto diverso quanto complementare.
Ci volevano artisti di grande personalità per restituire tutta la ricchezza teatrale a questo testo veramente bellissimo: al primo cast di lusso (Maria Agresta e Carmela Remigio) si sono alternate con successo Francesca Dotto, nel ruolo di una luminosa Anna Bolena (e spesso ammirata in teatro come Violetta) Paola Gardina, convincente nel ruolo di Jane Seymour, tanto attente alla canto e agli impegnativi acuti in scena, quanto curate nei lunghi e indispensabili recitativi.
In mezzo a loro la potenza vocale di Dario Russo (nel primo cast la certezza di Alex Esposito), capriccioso Enrico e la presenza di Giulio Pelligra che interpreta Riccardo Percy.
La versione integrale non è apparsa mai, in alcun momento gratuita: tutto merito della direzione sempre vitale e trascinante del maestro Riccardo Frizza sul podio del Teatro dell’Orchestra dell’Opera di Roma dopo la Linda di Chamonix, che sceglie tempi vivaci e molto energici a sostegno dell’intera azione drammaturgica.
Corretta, ma mai invasiva o prepotente la regia di Andrea De Rosa, che aveva già curato la messinscena della Maria Stuarda di Donizetti prodotta a Napoli e poi arrivata a Roma, e che si attiene al libretto con totale rispetto cercando di svelare gli aspetti più drammatici e più cupi del dramma umano che si consuma sulla scena.
Nessun colpo di teatro, ma la costante e cesellata sottolineatura della cupezza di un dramma anche attraverso la scelta delle scene un po’ claustrofobiche di Luigi Ferrigno (da un’idea di Sergio Tramonti) che creano una sorta di scatola con tre pareti che inglobano Anna, anche nella camera da letto fino a trasformarsi un una prigione verticale a vista. Adeguatamente tetre le atmosfere con le luci di Enrico Bagnoli che svelano i bellissimi costumi storici e cangianti realizzato da Ursula Patzak. Un grande successo per una messinscena di un titolo raro all’insegna del teatro delle voci esaltato da un libretto di prorompente drammaticità.