Più asciutto ed intimista non poteva essere: l’Orfeo ed Euridice, capolavoro del tedesco Christoph Willibald Gluck su libretto Ranieri de’ Calzabigi nelle mani di Robert Carsen, geniale regista canadese al debutto romano, diventa un piccolo gioiello di introspezione e intimismo dove, almeno per una volta, amor vincit omnia.
In scena per poche repliche (dal 15 al 22 marzo ) al Teatro dell’Opera di Roma collezionando dei (quasi) sorprendenti sold out, l’Orfeo ed Euridice è arrivato al Costanzi nella felice coproduzione realizzata con Theatre des Champs-Elysees, Chateau de Versailles Spectacles e Canadian Opera Company: a Roma è stata una sorta di “prima volta” per la maggior parte del pubblico visto che era assente sulle scene dagli Anni Sessanta.
Pur se poco popolare e rappresentata l’Orfeo segna l’avvio della riforma gluckiana che punta a semplificare al massimo l’azione drammatica e si concentra sui personaggi e la musica eliminando gli eccessi del teatro lirico dell’epoca: coerentemente, Carsen sceglie proprio la più essenziale delle versioni, l’originale viennese del 1762, per un allestimento veramente scarno, ma evocativo fatto quasi solo ed esclusivamente di luci e di personaggi. E naturalmente di musica in un crescendo emotivo.
“Con Orfeo ed Euridice cambia per sempre il modo di comporre le opere, si focalizza interamente ed esclusivamente sulle due cose che definiscono le nostre vite: amore e morte” aveva detto Carsen presentando il suo allestimento: ogni dettaglio è costruito sulla delicatezza dei movimenti, tutto è concentrato sull’insopportabile dolore di Orfeo che tenta il suicidio fin dall’inizio per ricongiungersi alla sua perduta Euridice.
Ridotto anche il numero dei protagonisti: sono solo tre in scena, nei tre atti (novanta minuti in tutto) dove si alternano le voci di Carlo Vistoli, un controtenore partcolarmente adatto alla parte (scritta originariamente per un castrato) nel ruolo di Orfeo, di Mariangela Sicilia, il soprano che interpreta un’intensa e bellissima Euridice, la voce cristallina del soprano ungherese Emoke Barath nel ruolo di Amore.
Sono belli, sono avvenenti, sono giovani e bravi a recitare guidati con delicatezza dalla mano di Carsen: il cast è ben assortito e viaggia insieme al coro diretto da Roberto Gabbiani riuscendo sempre a padroneggiare la musica restando protagonista.
L’allestimento di Carsen è estremamente essenziale e quasi atemporale come la vicenda stessa dove trionfa l’amore: in scena (curata da Tobias Hoheisel), solo un fondale grigio, un terreno molto accidentato fatto di sassi e ghiaia, la fossa (centrale) dove verrà sepolta Euridice. L’atmosfera irreale, del dolore, degli inferi e del ricongiungimento (grazie ad Amore, deus ex machina della vicenda), viene affidata al gioco delle luci curate da Carsen con la collaborazione di Peter Van Praet con i chiaroscuri che si alternano fra il giorno e la notte, con gli inferi del secondo atto con le fiammelle degli spiriti.
Anche i costumi (sempre di Hoheisel) sono neri e atemporali, dal taglio minimalista quasi a simboleggiare la vittoria dell’amore e del sentimento che passa attraverso la razionalità.
L’allestimento, semplice, ma efficace, riesca a riproporre con taglio nuovo la vicenda di eros e thanatos assecondando l’asciuttezza delle musica sublime con un allestimento scarno. Bellissime le note di Gluck affidate alla bacchetta di Gianluca Capuano, al debutto sul podio romano che guida con correttamente l’Orchestra, non specialista del repertorio.
Un grande successo il debutto di Carsen a Roma con un’opera non popolare, ma proposta in un modo intimista che colpisce il pubblico in attesa del ritorno del regista canadese con l’Idomeneo di Mozart fra qualche mese.