Titolo di una favola napoletana (con sottotitolo apparentemente enigmatico per la mancanza dell’articolo determinativo femminile singolare) uscita dalla penna di Giambattista Basile (Giugliano/NA 1566 – 1632) – letterato barocco che usa la fiaba come forma di espressione popolare – noto dal momento in cui peregrinando per l’Italia forse per motivi economici si arruola sotto la Serenissima ed è inviato con il suo reggimento a Candia (l’odierna Creta) dove ha modo di farsi conoscere per la sua penna ed è accolto nell’Accademia degli Stravaganti (fondata dal nobile Andrea Cornaro che si diletta a scrivere). Torna prima a Napoli appoggiato dalla sorella Adriana, celeberrima cantatrice, poi a Mantova per rientrare definitivamente nella parte meridionale della nostra penisola.
Lo cunto de li cunti overo lo trattenemiento de peccerilli (in verità più adatto agli adulti vista la complessità dei temi trattati… e apparso postumo in quanto pubblicato dal 1634 al 1636) di Gian Alessio Abbattutis – pseudonimo anagrammatico che Basile utilizza quando scrive in dialetto – rappresenta l’apice qualitativo della sua produzione in napoletano. Noto anche come Pentamerone – titolo postumo della raccolta di cinquanta fiabe di origine popolare con proverbi, invettive ed espressioni verbali – è articolato in 5 giornate, ciascuna delle quali comprende dieci fiabe, e seguendo lo schema boccaccesco che si rifà a esempi più antichi è inserito in una fiabesca cornice narrativa che riunisce connettendoli tutti gli altri racconti. Basile immagina che intorno a Taddeo (principe di Camporotondo), a una schiava moresca divenuta con l’inganno sua moglie e alla principessa Zora, una fanciulla innamorata del principe, si riuniscano dieci popolane che raccontano fiabe di cui alcune universalmente note ab antiquo. La materia popolaresca diviene raffinata creazione letteraria che ha avuto grande fortuna in Italia e in Europa tanto che Benedetto Croce definisce Lo cunto… “il più bel libro italiano barocco”, certo una costruzione letteraria delle più argute e gustose del secolo XVII: infatti, tradotto in italiano perde quella freschezza e ironica icasticità proprie della lingua napoletana
L’attrice, regista e drammaturga Emma Dante (Palermo 1967) dal percorso artistico fortemente connotato dall’esplorazione su famiglia ed emarginazione attraverso un’immediatezza comunicativa fondata su ritmo, linguaggio e uso del dialetto (in particolare quello siciliano) si ispira liberamente alla basiliana La scortecata, trattenimento decemo de la iornata primma, in cui si narra di un re che s’innamora della voce, udita attraverso una porta sempre chiusa, di una vecchia che vive in una stamberga con una sorella più anziana di lei: una più brutta e deforme dell’altra.
La regista affida il ruolo delle sorelle e del re oltreché della fata a due uomini, Salvatore D’Onofrio e Carmine Maringola, attori di grande bravura sia nel recitare, sia nella mimica e capaci in una scena più che minimalista di rendere appieno, oltre ai sentimenti del re, la carica di non sopportazione reciproca e insieme il legame che caratterizzano questa coppia più che attempata con due destini ben diversi e comunque singolari entrambi.
Un’ora impegnativa per i due interpreti attraverso i quali la Dante – esasperando un’umanità sformata e sfalsata sia fisicamente, sia psicologicamente e comunque come sempre alla ricerca dell’eterna giovinezza – trasmette tra il serio e il faceto un nutrito gruppo di messaggi.