Riccardo Chailly continua la sua ricerca filologica pucciniana e, dopo la Madama Butterfly della prima del 2016, recupera la prima versione di Manon Lescaut, andata in scena al Teatro Regio di Torino il 1° febbraio 1893, come documentata nell’Edizione critica curata da Roger Parker edita da Casa Ricordi nel 2013.
Uno sforzo filologico, quello del maestro, che è stato molto apprezzato dal pubblico del Piermarini, ma forse in parte reso vano dall’allestimento voluto da David Pountney, che ambienta le scene in una stazione ottocentesca, con treni in arrivo e in partenza.
Un’idea questa che, sebbene di grande impatto, risolta poco aderente al libretto e allo svolgimento della trama, rendendo l’insieme monumentale ma a tratti non del tutto comprensibile, se non perfino grottesco.
Certo, la grande metafora messa in scena da Pountney, una volta lette le note di regia, ha un senso quasi poetico: ambientare l’opera ai giorni di Puccini e mettere in scena la morale borghese che viene infranta dalla protagonista, solo per calare nel finale sulla testa della stessa come una sorta di punizione divina. Eppure, a tratti, la trama non si riesce a decifrare, se non compiendo salti logici che poco hanno a che fare con quello che Puccini aveva in mente. Come i vagoni del treno arredati in stile rococò, che somigliano più ad una carovana circense che ad una dimora lussuosa, oppure il deserto del quarto atto, che appare all’interno della stazione, rendendo surreale il dramma sul punto di compiersi, con Manon adagiata su di un carretto.
Messi da parte questi dubbi – che comunque restano puramente soggettivi – l’impatto visivo è a dir poco grandioso: le scene di Leslie Travers sono impressionanti, i costumi di Marie-Jeanne Lecca incredibilmente belli, e le luci di Fabrice Kebour contribuiscono a creare un insieme perfettamente cinematografico, di grande impatto.
La direzione di Chailly è, come sempre, impeccabile. Il maestro si conferma un interprete pucciniano di altissimo livello, mantenendo per tutta la durata una bacchetta godibile in ogni momento, evocativa, poetica, perfettamente bilanciata nell’uso delle sezioni dell’orchestra e nell’equilibrio tra buca e palco.
Notevole anche la prova dei due protagonisti: Maria José Siri, che avevamo già apprezzato nella suddetta Butterfly del 2016, e Roberto Aronica. Potente ma allo stesso tempo delicata la prima, perfettamente intonata anche nella recitazione; languido ma vigoroso il secondo, con doti interpretative davvero apprezzabili.
Bravi anche gli altri protagonisti: Massimo Cavalletti nel ruolo di Lescaut fratello e Carlo Lepore nel ruolo di Geronte di Ravoir, un baritono di cui abbiamo apprezzato la rotondità e la morbidezza della voce in tutti i registri.
Buona anche la prova del coro, preparato dal maestro Bruno Casoni.
A fine recita applausi convinti da tutto il teatro, in particolare per Siri, Aronica e Chailly.
La recensione si riferisce alla recita di sabato 13 aprile 2019.