Che cosa hanno in comune un migrante che racconta la sua disperazione, un ragazza dell’Est strappata alla famiglia con il miraggio di un lavoro in Italia che finisce sulla strada, un replicante che tenta disperatamente di mostrare di essere insostituibile a svolgere lavori che gli altri non vorrebbero più svolgere?
Forse nulla o forse tutto perché sono tre facce della stessa medaglia di una realtà dove la società è alla deriva e dove il delitto morale peggiore, rendere oggetto le persone, è diventata la quotidianità: le tre voci sono i tre protagonisti di ma sono i tre protagonisti di La pacchia è finita – moriamo in pace, trio di folgoranti monologhi in scena per tre repliche strapiene (dal 9 all’11 aprile) negli spazi dell’OFF/OFF Theatre di Via Giulia a Roma
Tre testi dal risvolto inaspettato nati dalla penna e dalla riflessione di Anne-Riitta Ciccone con la presenza di tre giovanissimi e bravissimi attori che si affidano al talento registico di Lorenzo d’Amico de Carvalho che mettono in scena la forma teatrale più essenziale che si sia, il monologo, dove le scene nulla contano rispetto alla presenza fisica dell’attore.
La pacchia è finita parte citando uno degli slogan elettorali tanto usurati di questi tempi legandosi alla religione e mostrando la deriva della società umana attraverso un tagliente spettacolo che non lascia indifferenti su tematiche che ci passano attimo dopo attimo sotto gli occhi, nella cronaca quotidiane, riaccendendo l’interesse su quello che sembra essere divenuto la normalità.
Gianvincenzo Pugliese, in Sulla Stessa Barca, è il protagonista di un migrante sopravvissuto a un naufragio d interrogato dalla polizia che racconta quello che si nasconde dietro la disperazione della partenza con tanto di colpo di scena che mostra il migrante essere lo scafista di turno, un uomo incattivito da una vita che l’ha ridotto così.
Un monologo spiazzante che diventa accusa precisa nei confronti del buonismo delle politiche dell’accoglienza e che con sguardo disincantato racconta una parabola fin troppo attuale fatta di un uomo in un percorso ormai irreversibile.
Maria Vittoria Casarotti Todeschini è Maria, nei panni de La Santa nel monologo che racconta di una realtà quasi abusata, ma trattato come una sorta di parabola sulla vita di una santa moderna che si offre per carità finendo vittima dei suo carnefici e mostrando quello che c’è veramente dietro una ragazza bellissima tradita dai suoi sogni.
Gabriele Stella, è il protagonista di Kappatrequattrocinquebis, il terzo monologo altrettanto straziante che racconta di un replicante disposto a rutto pur di svolgere lavori che altri non vorrebbero fare alla ricerca di una ragione di vita, trasformandosi in un oggetto.
Lo spettacolo è coraggioso e la scrittura indaga senza sconti o pregiudizi su argomenti fin troppo tratti che acquistano nuova luce senza sconti senza retorica trasformandosi in una sorta di Vangelo degli ultimi scuotendo le coscienze anche buoniste e costringendole a riflettere sulla realtà che che riempie i telegiornali, ma in modo diverso, costringendoci a farei conti con la nostra coscienza nella consapevolezza che la società e gli uomini ormai si sono resi colpevoli del peggiore delitto morale: rendere oggetto le persone. Il monito è quello di non lasciare che accada senza fare nulla appellandosi alla nostra coscienza.